Sorrento, ritornano i riti della Settimana Santa

Sorrento, ritornano i riti della Settimana Santa

13 Aprile 2022 0 Di Giuseppe Lotito

La processione del Giovedì Santo si svolge nelle ore serali del giorno in cui il calendario liturgico della Chiesa rivive l’Ultima Cena e le ore tremende della passione di Cristo nel Getsemani. Si tratta di una cerimonia che ha radici storiche molto profonde e che ogni anno si ripete secondo ritualità tradizionali.

La storia

Il terminus post quem del rito è il 1695, anno cui risale un antico documento custodito nell’Archivio diocesano di Sorrento in cui il priore della Confraternita del Rosario di Sorrento chiedeva al Vescovo Didaco Petra di poter «uscire processionalmente a far visita ai Sepolcri come al solito passato». L’abito confraternale, in queste occasioni, era come quello in uso ancor oggi. L’uso del cappuccio è testimoniato dalla pala dell’altare del sodalizio presso l’antico Convento di San Vincenzo. Nicola Federico, nel 1708, dipinse, sotto la vergine del Rosario attorniata da San Domanico, Santa Caterina da Siena e Santa Rosa, i confratelli assaccati con la veste bianco latte, la mozzetta nera e il cappuccio del colore dell’abito. 

Negli antichi inventari della confraternita erano enumerati «cappucci ad uso del Giovedì Santo». Una litografia, in cui si legge la data 1631, riportata nel testo di Pasquale Ferraiuolo ivi ristampato, raffigura i «confratelli assaccati [col cappuccio, ndr] si recano il Giovedì Santo per la visita ai “Sepolcri”». Lo storico sorrentino Manfredi Fasulo, nel suo “Usi e Costumi della Pensiola Sorrentina” del 1906 riporta come ancora in vita quest’usanza di far visita ai sepolcri in processione. La tradizione è stata interrotta, come si evince dagli antichi verbali della Congrega, negli anni ’40 del ‘900, in corrispondenza degli sconvolgimenti bellici. Ripresa negli anni ’80 come una semplice visita fatta dai confratelli, l’antico abito di rito e le antiche forme di rappresentazione simbolica passionista d’ispirazione gesuitica sono state riscoperte e portate in auge in anni recenti.

I simboli della passione – per i sorrentini i “martiri” – sono tutti di recente ed artistica fattura. Si richiamano però a quelli introdotti nella tradizione sorrentina dai gesuiti nel XVII secolo, come ricorda Benedetto Croce «il secolo della pomposa devozione, delle gonfie prediche concettose, degli apparati nelle piazze e nelle chiese, nelle quali si chiamavano teatri e vi eccellevano i Gesuiti».   

Il rito

La processione sorrentina del Giovedì Santo segue un percorso ben determinato: esso prevede il passaggio per la piazza principale dove sorgevano le porte della città – piazza Tasso – per la piazza dove ha sede il comune – piazza Sant’Antonino – per il decumano principale – corso Italia – per l’incrocio dove sorge il Sedil Dominova, antico sedile nobiliare e in tutte le strade principali del centro. Nel percorso sono previste sette soste presso le chiese della città, al fine di Visitare l’Eucarestia custodita negli artistici Sepolcri, composizioni di grano, candele sculture e sagome. I processionanti sono uomini di ogni età che indossano un saio color bianco latte stretto in vita da una cintura in cuoio, un lungo scapolare nero, una mozzetta dello stesso colore e un cappuccio del colore della veste con due fori per gli occhi.

Il corteo, fondamentalmente, rispetta tre codici organizzativi: un segmento introduttivo che ha la funzione di richiamo acustico e di identificazione; un ampio segmento centrale che funge da metanarrazione simbolica, in cui vengono portati oggetti che richiamano la passione di Gesù e infine un segmento conclusivo costituito dai confratelli e dai sacerdoti.

La banda musicale della città funge da richiamo acustico all’inizio della processione: il suono è strategicamente coinvolgente. Le note di alcuni motivi funebri suonati dalla banda danno gravità alla sfilata. Come da tradizione locale vengono suonate, tra le altre, Jone, Una lagrima sulla tomba di mia madre, Pianto eterno.  Altro richiamo acustico è la troccola: è uno strumento musicale formato da una tavoletta di legno rettangolare, scolpita con fregi e simboli della passione, con sopra fissati dei ferri a forma di maniglia, che oscillando e sbattendo sul legno producono un suono sordo in sostituzione di quello delle campane, che secondo l’usanza liturgica dal Giovedì Santo a Pasqua devono tacere. I colpi della troccola evocano la cupa atmosfera nella quale avvenne la passione di Gesù. Secondo il rituale essa viene suonata al passaggio presso gli incroci e davanti le chiese.

Il secondo richiamo iniziale, quello d’identificazione, è costituito da una fila orizzontale di quattro processionanti incappucciati che portano quattro fanali alimentati ad olio e che, sull’abito di rito, indossano anche una fascia trasversa sulla quale è ricamato il nome della confraternita. Insieme a loro identificano i protagonisti del corteo – gli uomini legati alla confraternita – i gonfaloni. Essi sono di tre tipologie: un labaro costituito da un drappo rettangolare bianco panno con il nome dell’Arciconfraternita, lo stemma e altri motivi decorativi ricamati in oro; un grande stendardo a forma di vela, dello stesso colore, con lo stemma del sodalizio ricamato al centro in fili dorati e una croce sulla quale sono agganciati due drappi ricamati, sempre in seta ed oro (nel lessico tradizionale sorrentino il pannetto).

Il segmento centrale del corteo è metanarrazione della passione di Cristo. Vengono portati, su alzatine d’argento, i cosiddetti martìri, pseudo-reliquie della sofferenza di Gesù.  Essi sono il calice e l’ostia, elementi dell’eucarestia; la lanterna che richiama quella con la quale fu riconosciuto il volto di Gesù nel Getsemani e la borsa, nella quale erano racchiusi i trenta denari del tradimento di Giuda; il gallo che nel racconto dei Vangeli cantò dopo che Pietro mentì tre volte e il coltello con un orecchio, a testimonianza di quello che fu staccato a Malco, soldato romano; il bacile e la tovaglia a ricordo della fuga di Pilato nel giudicare Cristo, la colonna e il flagello, a simboleggiare le prime offese materiali subite da Gesù; la veste rossa, la corona di spine e la canna con cui i soldati romani schernivano onorando Cristo, re dei Giudei; il martello e i chiodi, che richiamano quelli usati per crocifiggere Gesù; il sudario, ricordo di quello sul quale restò impresso il volto alla Veronica e la targa I.N.R.I., apposta sulla croce, la veste bianca  e i dadi con i quali, secondo la tradizione, fu giocata a sorte fra i soldati; la spugna con la quale fu somministrato fiele per dissetare il Crocifisso e la lancia utilizzata per constatare la morte del Figlio di Dio; la tanaglia, i chiodi e la scala, necessari per la deposizione. I portanti dei martìri si dispongono in coppia, camminando lungo il ciglio delle strade; tra le varie coppie, file di quattro incappucciati portano dei lampioni alimentati ad olio o con candele di cera.

Il segmento conclusivo della processione si struttura con i membri dell’Arciconfraternita del Rosario che sfilano in coppia e senza il tipico cappuccio, al posto del quale usano uno scapolare che lascia scoperto il volto. Ultimi nella fila i membri dell’amministrazione del sodalizio, che si riconoscono da particolari collari ricamati che sorreggono sul petto medaglioni d’oro per il priore e d’argento per gli altri amministratori. Il priore porta un bastone, simbolo della sua autorità. Il padre spirituale, ultimo tra i partecipanti, insieme ad altri sacerdoti del clero sorrentino, intonano il tradizionale rosario eucaristico.

L’identità di un popolo

Le processioni sorrentine della Settimana Santa sono uno strumento fondamentale per la costruzione della località. Come ha scritto l’antropologo Marino Niola: «la comunità si rivela a sé stessa mentre si mostra agli altri» e definisce la processione sorrentina come «monumento della propria identità che attraversa i tempi». Ancora oggi a tanti secoli di distanza, le cerimonie pasquali determinano l’unico momento in cui emerge una comunità dotata di senso e identità collettiva – quasi rispondendo all’ignoto segnale ingenerato dall’angoscia del dolore, del lutto e della separazione, magistralmente e teatralmente evocati dalle processioni. In questo senso le processioni pasquali rappresentano un momento importante in cui le identità individuali si ricompongono e si rappresentano come identità collettive. Il bisogno di riaffermare la propria identità culturale, di rinsaldare i punti di riferimento che sostengono il vivere quotidiano della comunità si è espresso in modo molto forte durante il confinamento nazionale dovuto alla pandemia Covid-19, in Italia durato dal 9 marzo 2020 al 18 maggio 2021. Durante il Giovedì Santo sera, la notte del Venerdì Santo e la successiva sera, è stato diffuso dai balconi dei sorrentini il suono delle Marce Funebri e del coro del Misere. Nella Quaresima 2021, ancora privato delle processioni, il Comune di Sorrento ha esposto lungo il corso principale banner fotografici rappresentanti scene delle processioni. Questi “riti di emergenza”, come sono stati battezzati dall’antropologo Giovanni Gugg, hanno preservato il sentimento di coesione sociale e hanno provato a curare le ferite causate dalla pandemia.  Questi riti, rivela ancora Gugg, «hanno assunto il ruolo di un centro simbolico che ha ridato senso all’esserci in un periodo in cui tutti i punti di riferimento sembravano venir meno».

Una doppia tensione, globalizzante e localizzante, coinvolge la processione sorrentina anche in relazione alla sua digitalizzazione e diffusione in rete. Nel Giovedì e Venerdì Santo e nei giorni immediatamente successivi, milioni di internauti assistono alle sacre rappresentazioni non nello spazio cittadino ma sulle piattaforme di video sharing come You Tube, sui social network come Facebook e Instagram e su tantissimi altri siti internet.  Lo spazio della processione, così, non è più la piazza o la stradina o l’incrocio ma il sito web. La comunità tradizionale, di riflesso, diventa la community virtuale. Una comunità, quindi, globale, che potenzialmente coinvolge tutto il mondo. Questa tensione globalizzante, tuttavia, non intacca la formazione dell’identità locale, di una società e una cultura che, presentandosi agli altri, rappresenta sé a sé stessa, come ha scritto l’antropologa Amalia Signorelli. I luoghi delle processioni, poi, come ha sottolineato efficacemente Antonino Buttitta, non sono semplicemente un perimetro territoriale ma sono soprattutto segnature e peripli ideologici, in cui la comunità si riconosce e si ritrova.