Figlicidio (I parte)

Figlicidio (I parte)

6 Luglio 2020 0 Di Teresina Moschese*

Questo fenomeno, definito da alcuni come “tragedia della genitorialità”, è frutto di situazioni varie e complesse, di storie terribili di sofferenze psicologiche e relazionali.

 

Teresina Moschese

Che cosa può spingere un padre ad uccidere i propri figli?

Il tragico ultimo figlicidio dei gemelli 12enni ad opera del padre, consumatosi qualche giorno fa a Margno, in provincia di Lecco, ci pone, come comunità, nella necessità di parlarne per interrogarci e riflettere su come riconoscere, in famiglia, tra gli amici, nella comunità che frequentiamo, i segnali premonitori, i sintomi di un malessere profondo che può arrivare ad essere distruttivo, uccidendo se stessi e le persone più fragili e deboli della famiglia: i propri figli.

Questo fenomeno, definito da alcuni come “tragedia della genitorialità”, è frutto di situazioni varie e complesse, di storie terribili di sofferenze psicologiche e relazionali, a volte, di antica data, di violenze morali, di incomprensioni, abbandoni, solitudini, maltrattamenti e trascuratezza, talvolta, di traumi subiti e poi inflitti, cui si aggiungono spesso  gravi elementi di contesto che possono concorrere a innescare la violenza, come, ad esempio, l’assunzione di droghe o di alcol, la povertà economica e culturale, l’esasperazione di un conflitto di coppia, così come la presenza di psicopatologia personale.

Questi elementi scatenanti mettono a nudo, infatti, l’impotenza e la fragilità genitoriale di fronte alla difficoltà a tollerare emotivamente le frustrazioni derivanti dalle diverse e complicate storie di vita familiare, che si traducono in angoscia e violenza rivolta contro i figli e, inevitabilmente, contro se stessi, mostrando tutto l’orrore della crisi della capacità mentale ed affettiva genitoriale del “prendersi cura”.

Molti studiosi, criminologi e psichiatri, tra cui Cesare Lombroso e Philip Resnick, spiegano questo fenomeno come espressione di diverse forme di disagio psicologico, sociale e relazionale determinato da svariati moventi, definendoli come: figlicidio altruistico, figlicidio a elevata componente psicotica, figlicidio di bambino indesiderato, figlicidio accidentale e figlicidio per vendetta del coniuge.

Mi soffermo su quest’ultimo, ponendo attenzione a quando è agito per mano paterna, ossia quando l’aggressività del padre viene spostata dal reale oggetto di risentimento (il coniuge) verso il figlio, che rappresentava il frutto di tale unione, la personificazione tangibile della fonte della propria sofferenza, così come tramandatoci, sin dall’antichità, dalla mitologia greca attraverso il mito di Medea, figura mitologica rappresentativa di queste istanze figlicide. Infatti, i padri tolgono la vita ai propri figli, molto più spesso, spinti da una ritorsione nei confronti delle partner.

Medea, esperta in arti magiche e figlia di Eete, re della Colchide, custode del Vello d’oro, presa dall’amore per Giasone, lo aiutò a conquistare il Vello d’oro, uccidendo il proprio fratello. Dopo aver tradito la patria e la propria famiglia, fuggì con Giasone e visse con lui serenamente, fino a che il re greco Creonte non propose a quest’ultimo in sposa la propria figlia. Giasone, spinto dall’ambizione di divenire re, abbandonò Medea per l’altra donna. A quel punto Medea, tradita, in preda alla disperazione condita da rabbia, odio e vendetta nei confronti di Giasone, uccise tutti i propri figli avuti con l’eroe greco per vendicarsi del suo tradimento.

In questo gioco relazionale perverso di vendetta contro il coniuge, che lascia o minaccia di lasciare, i figli sono utilizzati come un vero e proprio strumento per infliggere sofferenza o attirare attenzione da parte di chi è il vero oggetto della propria ostilità e solitamente l’azione è preceduta da un evento che funge da fattore scatenante (ad esempio un’ennesima lite con il partner).

Un elemento comune a molti di questi padri omicidi è la depressione con stati dissociativi, una delle psicopatologie più frequentemente citate dagli Autori che si occupano di questo tema. Essa ha due volti: quello autodistruttivo, implosivo, che comprime la persona in un’inquieta inerzia sempre più paralizzante e quello aggressivo, che si alimenta di rabbia, di frustrazione, di odio. La depressione apre la stanza dei pensieri di morte, suicidari, se predomina l’autodistruzione; o dei pensieri omicidi, quando predomina l’aggressività, diretta contro altri, con una gamma si azioni crescentemente violente e/o efferate. Essi non vedono il bambino come un individuo a sé stante, ma come un prolungamento della propria persona, la quale può deciderne vita e morte e utilizzarlo come strumento per nuocere e produrre disperazione nel proprio partner, per non condividere o lasciare ad altri qualcosa che considera suo. In questi casi, solitamente è seguita dal suicidio del genitore stesso(suicidio allargato), che vuole sottrarre anche il proprio figlio da quelle che crede le atrocità del mondo, proteggendolo da un futuro di infelicità (figlicidio altruistico), dettato da eccesso di amore e protezione verso i propri cari, allorché il genitore è talmente disperato da vedere, come unica via di fuga per sé e i suoi figli, la morte. Inoltre il figlicidio paterno, spesso, sfocia in uxoricidio e suicidio e sussiste una maggiore violenza nelle modalità(arma da fuoco, arma da punta e taglio e gravi traumi) verso i figli, che in genere sono più grandi o giovani adulti, il tutto accompagnato da maggiore efferatezza e rivendicazione nei confronti del coniuge. (Continua)

*Psicologa-psicoterapeuta sistemico-relazionale