Antonio Buonanno, il disagio psichico da pandemia

Antonio Buonanno, il disagio psichico da pandemia

24 Gennaio 2021 0 Di Anna Mozzi e Pasquale Maria Sansone

La grande angoscia per la diffusione del Covid-19 ed il sovraffollamento delle strutture sanitarie, ci hanno fatto trascurare un aspetto di questo dramma, rilevante quanto la Pandemia: gli effetti sulla nostra psiche.

Sentiamo, a tal proposito, un Autorevole Psichiatra, Psicoanalista, Psicoterapeuta: Antonio Buonanno, Medico Responsabile presso la Clinica Specialistica “Samadi” di Roma, eletto nell’Esecutivo del Centro Psicoanalitico di Roma quale Segretario Amministrativo (il mandato è appena terminato, dopo 4 anni, il 31 dicembre).

Come ha vissuto Antonio Buonanno la paura della Pandemia e l’indispensabile clausura durante la “prima ondata”?

Mi sembra che la domanda solleciti una risposta nella quale provare a tener conto sia del piano professionale che di quello personale, anche se questo risulterà certamente meno interessante. Lavorativamente mi son trovato a dover agire su due fronti, per un primo breve periodo, tra loro divergenti. Se infatti, come responsabile medico di una struttura residenziale, che ospita anche persone fragili (per ragioni anagrafiche o di storia di malattia), la prima urgente preoccupazione non poteva che essere quella di difendere i nostri numerosi ospiti dal rischio del contagio e, quindi, di “chiudere”, già prima che scattasse il “lockdown” del 9 marzo, invece, come psicoanalista e psichiatra privato, almeno inizialmente, ho pensato fosse utile (o in alcuni casi necessario) cercare di continuare a conservare, nello spazio del mio studio, i segni di “apertura”, caratteristici di quell’esperienza di relazione terapeutica.

Naturalmente, in entrambe le situazioni, da subito ho adottato e chiesto venissero utilizzati i dispositivi di protezione personale che però, ricordiamolo, purtroppo inizialmente scarseggiavano. Quindi la Samadi (la Struttura Residenziale in cui lavoro) si è chiusa all’esterno, minimizzando anche i rischi di contagio interno, da parte di chi era costretto al contatto con il “mondo di fuori” (nuovi ricoveri e personale). Nello studio invece io continuavo a ricevere in presenza fisica, confrontandomi con i pazienti apertamente, sia circa i significati concreti di quella scelta (soprattutto i rischi) che tentando d’indovinarne quelli simbolici e affrontando assieme i timori. Ho accettato fin da principio di continuare le terapie “da remoto” con chi me lo chiedeva, attraverso le diverse piattaforme digitali a disposizione, accettando il cambiamento di setting per “l’eccesso di realtà” rappresentato dai pericoli della pandemia. Quando è stato decretato il lockdown però o, dopo qualche settimana nei pochi casi di persone riottose ad interrompere la forma tradizionale di terapia (talvolta per motivazioni psicologiche comprensibili), temendo di poter essere fonte di contagio (proprio per il mio lavoro in clinica) o di colludere con aspetti onnipotenti o di negazione dei miei pazienti privati, ho concordato di interrompere tutte le terapie in presenza, continuando la relazione, per chi lo ha accettato (la grande maggioranza), online o per telefono. Sul piano personale, pur senza sperimentare una vera clausura, avendo sempre continuato a lavorare molto e a uscire di casa quotidianamente per recarmi in clinica o allo studio, ho attraversato i diversi sentimenti che hanno caratterizzato per tutti quel periodo, paura compresa, con la necessità, imposta dal ruolo, di dovermici soffermare più di quanto avrei fatto spontaneamente, preso dalla situazione. L’agire aveva una funzione difensiva, rispetto all’angoscia per l’enormità di quanto accadeva.

La gente è sempre più disorientata a causa dei messaggi che i media non sempre filtrano adeguatamente e la preoccupazione per l’insorgenza di disturbi psichiatrici è giustificata. Cosa fa il SSN per fronteggiare tali disturbi?

Pur non piacendomi, in effetti il neologismo infodemia è efficace nel descrivere quanto accaduto, con la diffusione incontrollata di notizie, vere e false, pareri, più o meno autorevoli, spesso discordanti, che hanno raggiunto persone già in difficoltà e non sempre con una cultura scientifica adeguata per filtrare questa inondazione mediatica. La reazione a ciò, nei casi patologici, ha comportato ansia, depressione o, sul versante opposto, la negazione maniacale, con sopravvalutazione di sé e sottovalutazione dei rischi, ai limiti del delirio di onnipotenza. Anche il fenomeno, mai così diffuso, del “negazionismo” ha aspetti patologici, meglio comprensibili in una lettura psicoanaliticamente orientata, informata cioè di meccanismi psichici come il diniego psicologico, reazione inconscia proprio alla paura.

Il SSN, travolto dall’emergenza per la gestione dei malati Covid, soprattutto durante la cosiddetta prima ondata, ha tardato e faticato nell’offrire una risposta adeguata al crescente disagio psichico. Il personale sotto-organico, il ridimensionamento della medicina di prossimità, l’assenza di strumenti tecnologici adeguati ha talvolta portato a trascurare i pazienti sofferenti per disturbi psichiatrici. Ci sono state lodevoli eccezioni, con colleghi che in pieno lockdown, anche a rischio di contrarre il virus (come purtroppo in alcuni casi è avvenuto), hanno continuato a seguire i loro pazienti.

Sinceramente, mi è sembrato però che la risposta più efficace al disorientamento generale e all’emergenza psicologica e psichiatrica, sia venuta dagli ordini professionali, da diverse associazioni scientifiche (come ad esempio la Società di Psicoanalisi), dal privato sociale o da qualche centro universitario che ha offerto dei luoghi di ascolto. Anche il numero verde di supporto psicologico attivato dal Ministero della Salute ha svolto il suo compito di aiuto, nel periodo più angoscioso del primo lockdown, grazie alla collaborazione fondamentale delle realtà che prima ricordavo.

L’OMS. ha coniato il termine di “Pandemic Fatigue” !! Cosa pensa Lei della stanchezza, dovuta allo stato di crisi prolungata dinanzi ad una Pandemia di cui non s’intravede la fine? Quali strategie di coping suggerisce?

A dispetto della necessità assoluta di tutelarsi, mettendo sempre in atto comportamenti adeguati a limitare i rischi di contagio, resta comunque tutt’altro che semplice conservare un atteggiamento coerente. È accaduto che, dopo una prima fase in cui la paura e il senso civico spingevano tutti a proteggersi, le persone progressivamente abbiano allentato il controllo.

Durante la “prima ondata” abbiamo assistito ad una aderenza alle prescrizioni non scontata, anche quando ha comportato una repentina e significativa limitazione delle nostre libertà, in ragione credo, oltre che del senso di responsabilità, di uno spirito di solidarietà e di comunità, altrimenti non così diffuso, e della purtroppo illusoria prospettiva che quella condizione sarebbe stata breve. Per qualcuno, venuta meno la solidarietà, perché più “costosa” o fin da principio non del tutto sincera, e prolungatosi il tempo del sacrificio, è crollata la motivazione, lasciando prevalere le pulsioni individualistiche. Allora le regole non sono state più rispettate rigidamente, anche perché non del tutto comprese e apprese (direi purtroppo anche fino ad essere interiorizzate), in modo da diventare abitudini. Tali comportamenti sono stati descritti dagli esperti dell’OMS, in un interessante documento: “Pandemic fatigue. Reinvigorating the public to prevent Covid-19”.

La stanchezza e lo stress, derivanti dal perdurare della pandemia e dal rispetto delle norme imposte per limitarne la diffusione, hanno alimentato lo scetticismo e la demotivazione delle persone nel mettere in atto i comportamenti protettivi raccomandati per la tutela della salute individuale e della comunità. La situazione emergenziale attiva i sistemi di adattamento e di risposta allo stress acuto, rendendoci ricettivi e reattivi; quando però lo stress si cronicizza è possibile che la stanchezza mentale prenda il sopravvento. Questo, sommato all’esposizione quotidiana al pericolo e alle conseguenze della malattia, con i suoi macabri rituali (il bollettino giornaliero di morti e contagi), ha comportato per qualcuno la desensibilizzazione con la sottovalutazione dei pericoli o, per qualcun’altro, addirittura, anche in un movimento umano di soggettivazione, di “protesta” per sottrarsi alla passivizzazione di un evento così più grande di ognuno di noi, la ricerca dell’autodeterminazione nella negazione della tragica realtà che stiamo vivendo. I costi percepiti per mantenere un comportamento virtuoso possono essere ritenuti in queste situazioni troppo alti rispetto ai rischi e condurre le persone a sottovalutare questi ultimi e a manifestare con rabbia, non solo contro le restrizioni, dalle potenziali gravi conseguenze economiche sulle loro vite, ma anche per negare l’esistenza del problema, in una forma di diniego più che di rimozione, a difesa della psiche, esposta ad un’angoscia mai vissuta.

Mi è sembrato che, a questo proposito, la comunicazione istituzionale e scientifica non ci abbia sempre aiutato. Nel primo caso, con un atteggiamento dai toni forse paternalistici e un po’ autoritari, non raccontando sempre con chiarezza e trasparenza quel che accadeva e giustificando i sacrifici anche in nome di un futuro migliore, indicato, ritengo per scelta consapevole, sempre troppo prossimo rispetto ai possibili scenari, anche i più ottimistici. Nel secondo, alternando toni allarmistici ad altri eccessivamente tranquillizzanti, ai limiti del mistificatorio. Di certo anche facilmente strumentalizzabili, nell’ottica di una narrazione prima negazionista e poi no-vax. In questa situazione mi pare più utile fare invece uno sforzo di comprensione, provando a dare ascolto e risposte più autentiche a questi vissuti. Parlare con chi sperimenta la demotivazione, cercando di coinvolgere tutti nella strategia, in modo da potersi sentire come parte della soluzione e non del problema. È utile valorizzare il ruolo che ognuno ha nel benessere dell’intera comunità, attraverso una corretta informazione (anche scientifica) e promuovendo il senso di responsabilità e appartenenza, senza invocare, in una comunicazione a volte confusa e contraddittoria, un’obbedienza cieca. A livello personale, gli individui avvertono ormai il bisogno di tornare alle loro abitudini quotidiane, soprattutto quelle più significative o che investono nel domani. Anche a livello psicopatologico (ho notato tra i miei pazienti), l’incertezza o l’assenza di un futuro, con giorni che scorrono tutti uguali l’uno all’altro, con frequenti conseguenti disturbi del sonno, predispongono allo sviluppo di disagi ansiosi e depressivi. Può essere utile adottare una strategia di riduzione del rischio, incentivando le persone a tornare con prudenza a qualcuno dei comportamenti in precedenza aboliti, in modo il più possibile sicuro, riducendone i rischi.

I miei semplici consigli, nel rispetto delle regole, sono: cercare di uscire all’aria aperta, alla luce del sole; rispettare i ritmi circadiani, conservando una propria routine; anche in smart-working separare il lavoro dalle altre attività e cadenzare la settimana, onorando i giorni festivi; fare attività fisica; cercare di nutrire lo spirito e non solo il corpo, mortificati dalle restrizioni con la chiusura di palestre, piscine, campi da gioco, musei, cinema e teatri; conservare o scoprire hobbies e passioni; alimentare la socialità. A questo proposito, credendo come Michele Apicella, l’alter ego di Nanni Moretti, che “le parole sono importanti”, la scelta di chiamare “distanziamento sociale” la necessità di mantenere un maggiore spazio fisico tra le persone, può aver avuto implicazioni negative per la dimensione di allontanamento dalle relazioni che sembra prescrivere. La pandemia e le limitazioni che ha comportato, hanno determinato rabbia, solitudine e noia per tutti, ansia, stress, depressione su un versante più propriamente patologico, con un impatto negativo sul benessere e la salute mentale di molti, soprattutto di chi si trovava già in situazioni svantaggiate.

La stanchezza derivante dalle difficoltà e le preoccupazioni per il futuro possono essere alleviate, a livello di comunità, attraverso un sostegno economico, sociale, emotivo e culturale.

L’esperienza di cattività nei lockdown, la paura del contagio da Covid-19 ed anche eventuali lutti o contagi tra parenti, amici determinano l’implementazione di severi disturbi di ansia, di disturbi depressivi anche maggiori con eventuali suicidi. Ritiene che sia a rischio lo stato di salute mentale anche per la marcata e desolante recessione socio-economica?

Durante il lockdown, soprattutto all’inizio, paradossalmente, si aveva la percezione che lo stato di salute mentale non avesse avuto contraccolpi o che, al limite, fosse migliorato. I fobici e gli ipocondriaci, trovavano una giustificazione alle loro condotte, che non venivano sconvolte dalle nuove regole. Molti, come già ricordato, godevano di un clima più “umano” e solidale. Le famiglie, anche per costrizione, si sono ritrovate e i genitori hanno speso più tempo con i figli. Già il prolungarsi di questa condizione ha però determinato i primi problemi, per esempio tra chi assumeva abitualmente sostanze stupefacenti. Poi le famiglie disfunzionali o le coppie mal assortite hanno sperimentato il disagio di una convivenza forzata, con aumento dell’aggressività o della violenza. Il perdurare della condizione ha poi portato all’aumento degli stati ansiosi e depressivi e dei disturbi del sonno, come già precedentemente descritto.

Ora però la vera emergenza è rappresentata dalle categorie più fragili e penalizzate dagli eventi: i giovani e giovanissimi e gli anziani. I primi per lo sconvolgimento delle loro abitudini, la privazione della necessaria socialità e del rispecchiamento tra i pari. Le persone più avanti negli anni, perché più a rischio di morte e gravi conseguenze e quindi più spaventate e isolate. Quel che causerà la sospensione della didattica in aula e della normale convivialità tra i più piccoli è di difficile ma purtroppo temo infausta previsione. Ridurre le relazioni a contatti a distanza, che accentuano una tendenza preesistente nel ridimensionare la sensorialità, in un appiattimento bidimensionale in cui non siamo coinvolti in tutti i sensi, temo possa avere conseguenze. Già oggi si registra, nelle istituzioni specializzate (per esempio l’Ospedale Bambino Gesù di Roma) un drammatico incremento delle condotte autolesive tra giovani e giovanissimi.

Anche le ricadute economiche aggraveranno tale quadro, aumentando angosce e frustrazioni per la gestione di nuovi problemi materiali. Evidentemente, la sensazione dell’assenza di prospettive e lo stress quotidiano peggiorano lo stato di salute fisica e mentale. In questo senso, nella misura in cui non suoni solo come un appello retorico o vuoto, davvero cercare di uscirne assieme, come comunità, dalle più piccole e nucleari (la coppia, la famiglia, gli amici) alle più allargate e strutturate, sarebbe la risposta più efficace a tale condizione di disagio. Proviamo ognuno, pur nella consapevolezza di ciò che abbiamo perso e delle difficoltà che ancora ci aspettano, a portare un contributo per uscirne, se non migliori almeno vivi, sia come individui che come comunità.