Sergio Messina, il rapporto tra inquinamento e Covid19

Sergio Messina, il rapporto tra inquinamento e Covid19

11 Ottobre 2020 0 Di Anna Mozzi e Pasquale Maria Sansone

Covid 19 ed inquinamento ambientale. Molti studiosi hanno cercato di approfondire questo argomento e qualcuno giura che lo smog ed i 5G potrebbero favorire la diffusione del virus.

A tal proposito abbiamo sentito un giovane studioso che proverà ad affrontare questa delicata questione ed altre inerenti l’inquinamento. Sergio Messina è avvocato civilista e agrarista presso il Foro di Santa Maria Capua Vetere (CE); dottore di ricerca in Etica e filosofia politico-giuridica. Ha conseguito un Master in diritto dell’ambiente presso l’Università degli Studi di Siena ed è stato visiting researcher presso lo Strathclyde Centre of Environmental Law and governance di Glasgow.

Ha esercitato il ruolo di Esperto in oltre una decina di progetti PON e POR in materia ambientale presso le scuole secondarie di secondo grado.

Ha pubblicato diversi articoli (tra cui Democrazia ecologica ed expertise ambientalerazionalità in contrapposizione? Milano 2013; Conversazione con Giorgio Nebbia Napoli 2015; To tell and reinvent a city. Taranto between development and venoms, Glasgow 2015) e una monografia (Eco-democrazia. Per una fondazione ecologica del diritto e della politica, Orthotes editore, Salerno 2019) sul tema della “democrazia ecologica”.

 

  • In che maniera Sergio Messina ha vissuto il lungo periodo di clausura a causa della pandemia e quali paure lo hanno afflitto

 

Il mio vissuto personale non è più esemplificativo rispetto a quello di tante altre persone, ma vi ringrazio ugualmente per la domanda perché mi consente di affrontare in modo ancora più diretto alcuni argomenti che ho a cuore. La prima immediata impressione è stata il sentire davvero per la prima volta cosa significhi vivere un’emergenza, avvertendo anche che un evento (parola oggi molto abusata) del genere sarebbe finito senz’altro nelle pagine della storia. Ho semplicemente rispettato le regole (per quanto restrittive) data la necessità di farlo per il bene della salute individuale e pubblica, accompagnato (così come adesso) dalla grande paura che il fenomeno potesse e possa ancor oggi diventare socialmente incontrollabile; non solo per le incertezze scientifiche che riguardano il virus ma anche per l’estrema difficoltà nel regolamentarlo (e per questo ritengo che il negazionismo tanto scientifico, quanto “politico” sia alquanto aberrante). L’essere chiuso tra “quattro mura” tuttavia mi ha fatto riflettere molto in positivo da un lato sul fatto che obtorto collo sia ritornata al centro del dibattito finalmente anche la “comunità” (e non più soltanto l’individuo) con tutto ciò che ne consegue in termini di bisogni primari come la sanità pubblica, la sicurezza alimentare, la prevenzione ambientale e il “valore” della natura come luogo più appropriato per costruire rapporti sociali non tossici o artificiali (come accade ad esempio nelle recenti proposte della “outdoor education”); dall’altro che una riduzione significativa dell’inquinamento atmosferico in alcune aree del pianeta e l’abbattimento del 17% circa delle emissioni Co2 per effetto delle misure di confinamento (soprattutto la parziale interruzione della produzione industriale e la forte limitazione del traffico automobilistico e aereo) dovrebbe indurci a pensare che, al netto di restrizioni intollerabili, una società realmente sostenibile dal punto di vista ecologico e sociale è possibile costruirla e anche in breve tempo, se solo lo si volesse. Come giurista ambientale e studioso di filosofia del diritto penso a una società fondata su una “crescita qualitativa” realizzabile grazie a un atteggiamento “resiliente”, ossia trasformando tutti gli svantaggi e gli ostacoli che si stanno ponendo lungo il nostro cammino in grandi opportunità di cambiamento.  

 

  • Covid 19 e inquinamento ambientale. Smog e 5G possono davvero favorire la diffusione del virus, quali studi acclarano questa tesi?

 

Voglio immediatamente premettere che l’argomento esula dalle mie competenze, tuttavia, sulla base della visione che la mia formazione mi ha dato risponderò come segue. L’ Organizzazione Mondiale della Sanità ha ormai chiarito da tempo il ruolo che ha l’inquinamento atmosferico (ma il riferimento è anche alle altre tre matrici ambientali, ovvero suolo, acqua e fuoco) -causato in larga parte dall’uso dei combustibili fossili- nel rendere le persone più vulnerabili alla contrazione di malattie cardio-respiratorie, polmonari e auto-immunitarie che, a loro volta, favoriscono la degenerazione di queste patologie da parte del Covid 19 aggravando la situazione del malato portandolo, come è noto, fino alla morte. Numerosissimi sono poi gli studi (di cui sono da menzionare almeno quelli provenienti dalla Cina sulla epidemia di Sars del 2003 e il recente progetto nazionale dell’ISPRA in collaborazione con altri enti quali ENEA, ARPA e ISS) sugli indici di mortalità dovuta all’elevata concentrazione di particolato atmosferico che oltre a essere un veicolo per contaminanti chimici e biologici consente ai virus di permanere e diffondersi nell’aria entro un certo lasso di tempo. Quanto alla correlazione tra 5G e diffusione del Covid per quanto ne sappia, pur esistendo alcuni studi in merito non si è arrivati a una conclusione largamente condivisa dalla comunità scientifica. L’argomento è complesso in quanto già le onde elettromagnetiche di per sé presentano profili problematici di non poco conto. Occorre essere prudenti come ci impone il noto principio di precauzione sancito a livello internazionale; il che non vuol dire astenersi dall’ uso della tecnologia, ma acquisire un metodo di indagine e di azione improntato non solo sulla certezza che ci può dare un risultato in termini causa-effetto (o di meri costi-benefici economici) ma valutare con attenzione tutti i possibili effetti sistemici anche se sono poco noti; in altri termini dar maggior peso alle correlazioni statistiche sui fattori biologici ed ecologici (se le cellule sono composte da atomi e questi ultimi da elettroni è chiaro che le prime fungono da vere e proprie “antenne” di trasmissione non appena entrano in contatto con una fonte di energia esterna che può diventare tanto più significativamente rischiosa quanto maggiore è l’esposizione a una intensità di radiazione a frequenze estremamente elevate). Una forma di governo “eco-democratica” sull’uso della tecnologia potrebbe far convergere o far comunque trovare ingresso differenti visioni del “progresso” che come sosteneva Pasolini non coincide con il mero “sviluppo”.

 

  • Viviamo nella Terra dei Fuochi. Questa penosa condizione ci espone a rischi maggiori di contagio?

 

Anche a questa domanda non è agevole per me rispondere, proverò comunque a farlo avvalendomi delle conoscenze che ho a disposizione e degli studi che ho fatto anche nel recente passato. Bisogna senz’altro tenere a mente le prime due leggi dell’ecologia formulate negli anni Settanta da Barry Commoner uno dei padri dell’ambientalismo scientifico: 1) ogni cosa è connessa con qualsiasi altra; 2) ogni cosa deve finire da qualche parte. Sappiamo grazie a queste due leggi naturali che nessun “rifiuto” inteso come scarto propriamente umano (la natura e i suoi cicli biogeochimici non producano infatti nessuna forma di rifiuto, tutto è reimpiegato) scompare; si ha un trasferimento di sostanza da una forma all’altra e da un luogo a un altro. Rifacendoci a quanto dicevamo prima sulla correlazione tra Covid e inquinamento atmosferico ad esempio si sta indagando (così come è stato fatto con il particolato) se una maggiore concentrazione di diossine (uno “scarto” che viene prodotto soprattutto dagli inceneritori tramite il processo di termo-distruzione dei rifiuti solidi urbani) possa favorire l’espandersi di virus, così come del resto è già avvenuto tramite le acque reflue, la cui composizione è stata analizzata a campione sempre di recente dall’ Istituto Superiore di Sanità. Questo ci dice già molto sull’influenza che ha di certo la contaminazione delle matrici ambientali da parte di attività antropiche e la diffusione del coronavirus: non vi è, in altre parole, soltanto il problema che tagliando gli alberi di una foresta (per consentire per esempio l’agricoltura intensiva) o eliminando specie selvatiche rimuoviamo le barriere che ci proteggono dal “salto di specie” dei virus, ma diventa deleterio anzitutto un atteggiamento culturale, tecnico e politico che vede separate la realtà “naturale” da quella “urbana” (artificiale/umana). Occorre rovesciare la prospettiva agendo a monte: non c’è prima un’emergenza sanitaria, poi una economica e infine ambientale, vi è una continuità e uno stretto collegamento tra queste tre dimensioni. Favorire attività economiche dannose per l’ambiente naturale ha delle conseguenze immediate anche sulla salute e a maggior ragione sulla pandemia. Questo ci riporta alla modalità attraverso la quale i decisori politici determinano la realtà fattuale, ovvero attraverso interventi settoriali, molto spesso non coordinati tra loro e soprattutto non coerenti con una concezione autenticamente ecologica della politica. La prima è infatti indistintamente confusa e identificata con i vari rami (urbanistica, paesaggio, economia, finanza, beni culturali ecc.) dell’ “ambiente” mancando invece una visione di insieme (appunto “ecologica”) che come le perle di una collana metta assieme saperi differenti in un’ottica di cooperazione e non di rigida distinzione tra le competenze; una visione “olistica” della politica compatibile non solo con un auspicabile equilibrio tra i rapporti umani e sociali, ma con il funzionamento fisiologico della natura che solo in parte è riflesso nell’ attuale (parziale) diritto ambientale.

 

  • Alla luce dei problemi di metodo che lei ha più volte posto, formuli almeno tre proposte su come potrebbe, a suo parere, agire la Regione Campania. Quali dovrebbero essere le priorità?

 

Mi permetto prima di fornire un’ulteriore indicazione di metodo: uscire dalla “cattura” della “green economy” (che non coincide affatto con l’economia ecologica”) una formula magica per continuare a eludere e legittimare (consapevolmente o meno) un atteggiamento dominativo nei confronti della natura. Si tratta di una trappola, comunque nota, ma non ancora ai decisori politici (soprattutto nostrani) i quali agiscono come se gli ecosistemi fossero in grado prima o poi di rigenerarsi all’infinito. Non è così, esistono “confini planetari” che non possono essere oltrepassati, pena l’irreversibilità di molti processi che potrebbero tra non molto diventare ingovernabili. Per tale ragione il problema non consiste nel trovare un equilibrio all’interno del mercato semplicemente eliminando le cosiddette “esternalità” negative (salvo poi continuare a “estrarre” risorse) oppure producendo un prodotto “sostenibile” senza guardare all’intero “sistema” (ad esempio un decisore politico che scelga di sostituire interamente le automobili con le auto elettriche, non potrà poi fare a meno di affrontare il problema della limitatezza della risorsa litio che serve a costruire le batterie che le ricaricano; oppure posso essere certamente una compagnia aerea “virtuosa” se risparmio alluminio ma qual è l’incidenza complessiva del traffico aereo sul cambiamento climatico? ). Il criterio allora non deve essere anzitutto avulso dalla realtà naturale; per questo disponiamo di un indicatore affidabile come l’impronta ecologica” che può essere appreso anche un bambino di dieci anni per capire di quanti pianeti avrebbe bisogno se i suoi consumi superano una certa “soglia”. Per capirsi, l’impronta ecologica ci dice qual è la biocapacità del pianeta e quindi la disponibilità di terra (in ettari). La biocapacità mondiale è di 1,9 ettari; l’Italia segna un 4,2 (l’India 1,00, la Svezia 6,1, gli Usa 9,6 e il pianeta 2,2) la Campania un 3,56. E dunque le tre priorità potrebbero riguardare proprio le quattro “matrici ecologiche”: aria (interventi per contrastare il cambiamento climatico adottando tutte quelle misure necessarie all’abbattimento delle emissioni di carbonio favorendo invece che depotenziare la mobilità pubblica, e aumentare le superfici di verde urbano per assorbire il particolato atmosferico, ridurre i rumori e lo stress, regolare la temperatura e assorbire Co2); acqua mediante una ripianificazione di un ciclo virtuoso dei rifiuti (compresi i reflui) finalizzato principalmente al riutilizzo e al reimpiego delle risorse “scartate” e non alla loro distruzione o “abbandono” in discarica; terra e fuoco attraverso una lotta decisa alla desertificazione mediante il recupero dei terreni da destinare ad attività agricole e con annessi servizi sociali, educativi, ricreativi e quant’altro porti a un miglior “utilizzo” delle proprie potenzialità locali senza perdere di vista il dato che la crisi ecologica ha carattere globale e perciò travalica qualsiasi confine “amministrativo”. Tutto ciò dovrebbe essere favorito grazie alla formazione (soprattutto di dirigenti e funzionari della Pubblica Amministrazione) da promuovere tramite gli strumenti di cui già attualmente disponiamo (ad es. mediante una convenzione con il Formez o altri enti pubblici che dovrebbero però agire non semplicemente bilanciando diritti economici e sociali con la tutela ecologica, ma facendo della seconda la priorità in base alla quale riprogrammare ogni “strategia” politica). In definitiva, se dipendesse da me (ma sono solo un intellettuale che ha il ruolo di “enzima”, ovvero di acceleratore dei processi culturali e politici) la Regione Campania dovrebbe costituire una sorta di Istituto per la Riconversione Ambientale dotandolo di un adeguato fondo (parlo di diverse decine di milioni di euro!) e chiamando nei vari settori economico-finanziario-ambientale e amministrativo i migliori studiosi che le nostre università e la società civile riescono a fornire per accompagnare la Regione e i suoi cittadini verso quel cambiamento strutturale necessario e non più dilazionabile.