La malattia può davvero essere un’opportunità?

La malattia può davvero essere un’opportunità?

18 Marzo 2021 0 Di Alberto Vito*

La malattia organica, secondo i modelli del ciclo di vita, è considerata un evento critico traumatico che comporta conseguenze psicologiche e relazionali riguardanti non solo il paziente ma tutta la sua famiglia. Come ogni evento critico, anche la malattia, oltre al suo carico di sofferenza, dolore, preoccupazioni, può tuttavia contenere elementi che favoriscono la crescita personale.

Penso che, per la prima volta, me lo abbia fatto notare, ormai oltre 25 anni fa, un paziente sieropositivo. Era stato un tossicodipendente “duro”, che nonostante percorsi in comunità, il carcere e diverse terapie farmacologiche, non aveva visto arretrare di un millimetro la sua dipendenza. La scoperta di essere affetto dall’Aids fu invece la molla capace di attivare un processo di cambiamento radicale. “Io sono diventato una persona migliore”, mi raccontò durante una delle nostre sedute, “la malattia mi ha cambiato in meglio. La scoperta di non aver tanto tempo mi ha fatto venir voglia di essere un padre migliore, di recuperare tutto il tempo perduto con i miei figli, di dedicarmi di più alle persone che per tanti anni mi sono state vicine, nonostante io non lo meritassi”. Quest’uomo, di modesta estrazione culturale, era straordinariamente lucido e capace di descrivere in modo assolutamente chiaro il suo percorso di cambiamento. Non ho dimenticato le sue parole.  

Si tratta di un’osservazione condivisa da chi ha duratura esperienza lavorativa in ambito sanitario: le reazioni individuali alla malattia sono profondamente diverse da persona a persona. La malattia è certamente è dolore, sofferenza, paura. Si tratta di una iattura, una disgrazia, talvolta una tragedia. Ciò non va mai dimenticato e vanno evitate banalizzazioni poco rispettose ma è altrettanto certo che le modalità di reagire all’esperienza di malattia possono variare sensibilmente.

Se quindi le reazioni più frequenti sono di tristezza, depressione, ansia o isolamento, è innegabile che per un certo numero di persone, che costituiscono certamente una minoranza, ma non tanto rara come si potrebbe credere, il contatto con la sofferenza, dopo una fase di accettazione, può avere un potere trasformativo. Ci sono persone che riescono a convivere con la malattia senza peggiorare la qualità della loro vita e delle relazioni. In taluni casi, le relazioni diventano persino più ricche, profonde e significative.

Chi ha descritto in modo magistrale questo processo è Severino Cesari nel libro: Con molta cura, edito nel 2017 da Rizzoli. Cesari non è noto al grosso pubblico, ma era molto famoso tra gli addetti ai lavori in ambito letterario. È stato uno dei più importanti editor italiani, ha diretto la collana Stile libero di Einaudi promuovendo l’opera di tanti autori (tra l’altro, per chi avesse curiosità di conoscerne il volto, è comparso, in una particina piccola ma significativa nel film La Grande Bellezza di Sorrentino). Il libro, uscito a poche settimane dalla sua morte, raccoglie i post e il diario che aveva pubblicato in rete per qualche anno.

Come tanti, scoprii Severino Cesari, proprio leggendo con ammirazione i suoi post pubblicati su Facebook. Diventai anch’io un suo amico virtuale, entrando a far parte di una comunità larga, che ascoltava, condivideva e commentava le sue peripezie da paziente.

Quest’uomo, che presumo schivo e con iniziale scetticismo, iniziò a pubblicare le sue esperienze di paziente oncologico, su suggerimento della moglie, preoccupata per la tendenza ad isolarsi del marito. Cesari descriveva il suo rapporto con i medici, le infermiere e finanche il farmacista; i suoi pensieri  durante i ricoveri, la gestione delle terapie. La sua pagina raggiunse il massimo di visitatori consentito. A leggerlo erano soprattutto pazienti, che lo incitavano e ricevevano forza dall’apprendere la sua determinazione nell’affrontare la malattia, ma anche molti medici e psicologi, desiderosi di entrare più in contatto con il vissuto di chi sta “dall’altra parte”. Tra i suoi lettori anche il suo oncologo che scopre così che, il giorno prima della sua visita, entrambi avevano ascoltato lo stesso brano di musica classica. Eppure, in tanti anni di lavoro, non si era mai soffermato a chiedere cosa ascoltassero i suoi pazienti…  Avvenne un piccolo miracolo: grazie al suo stile di scrittura, ma soprattutto per il suo modo di affrontare la malattia, si creò nel tempo una comunità, virtuale ma non solo, che rifletteva, sperava, sognava, lottava sui temi della vita e della malattia. Facebook che in genere serve ad altro divenne il contenitore di qualcosa di prezioso.

Il libro è soprattutto una sorta di preghiera laica, un inno alla vita. Una testimonianza preziosa di un uomo coraggioso. E non coraggioso perché non ha paura, ma perché sceglie di affrontare le sue paure. Un uomo saggio, divenuto ancora più saggio, affrontando il dolore.

Egli dice che la malattia gli ha dato l’opportunità di capire l’importanza della cura, del prendersi cura. E non è necessario ammalarsi per capire la necessità di curare se stessi, le persone amate, le proprie passioni. Ma, attraverso la dedizione alla cura, a partire dalla cura farmacologica, così piena di effetti collaterali nocivi, egli afferma la gioia di vivere, di godere appieno di un caffè, di una giornata di sole, di un’amicizia profonda. Così ogni giorno va vissuto nella Cura, ed ogni giorno è sempre diverso. E ci invita a farla, la “Cura”.

Ho avuto la sensazione che Cesari abbia iniziato a scrivere per se stesso ma, strada facendo, si sia accorto di quanto la sua testimonianza potesse essere d’aiuto anche ad altri. Ed è andato avanti, io credo, con quello che un tempo si chiamava “spirito di servizio”, trovando anche un senso collettivo per narrare il suo vissuto.

“Con molta cura” descrive proprio quell’esperienza rara, eppure possibile, di cui parlavo prima. In un certo numero di casi, limitato ma non rarissimo, il contatto con la sofferenza e con la morte (in effetti, è questo) ci rende migliori. L’esperienza di molti pazienti ci dice che consente di ricollocare nel giusto ordine l’elenco delle “priorità esistenziali” di ciascuno, riportando gli affetti al primo posto. Ciò dipende innanzitutto dalle loro risorse personale e familiari.

Abitualmente, nella nostra vita quotidiana, impegniamo energie ed affanni per cose, in fondo, di poco conto, e pensiamo poco a ciò che veramente conta. Il contatto con la morte ci consente di riportare al primo posto ciò che è davvero importante: che, in fondo, non sono altro che le nostre persone care, chi amiamo e chi da cui siamo amati. La malattia è certamente una disgrazia, ma i mali della vita possono essere anche opportunità. Per divenire persone migliori.

 Si tratta di temi importanti, ma che vanno detti a bassa voce, con rispetto e discrezione.

Negli ultimi anni tento di occuparmi di questo. Come gli operatori sanitari, piuttosto che assistere a questo fenomeno, possano sviluppare capacità osservative e competenze per aiutare i pazienti e i loro familiari a convivere al meglio possibile, per quelle che sono le loro esigenze, con la malattia. Quali competenze devono possedere i medici e gli psicologi, in particolare, per incidere su queste forti disparità esistenziali, senza essere spettatori passivi della resilienza altrui?  Come dovrebbero cambiare i modelli formativi universitari? Si può insegnare a convivere con la malattia, trasmettendo agli altri il senso di profondo rispetto e cura per la vita? Solo per far un esempio, mi sembra essenziale il coinvolgimento dei familiari nei percorsi di cura. In un certo senso, è corretto dire che “ogni malattia è familiare”, sia perché lo stress connesso alla malattia riguarda tutta la famiglia, sia perché i familiari, ed i care-giver sono quasi sempre considerati dai pazienti come le risorse più importanti nel percorso di cura e di guarigione. Ma Il coinvolgimento programmato dei familiari richiede un ripensamento globali di cosa è una cura medica.

Le conoscenze scientifiche provenienti dalle discipline umanistiche indicano la strada per promuovere, accanto ai progressi tecnologici, una cura medica più globale, più ricca, più efficace, più vera.

*Responsabile UOSD Psicologia Clinica A.O. Ospedali dei Colli (NA), Didatta Scuola Romana di Psicoterapia Familiare