Coronavirus, l’orgoglio di essere infermiere

Coronavirus, l’orgoglio di essere infermiere

16 Marzo 2020 0 Di Mariagrazia Manna

“Incontrare questo piccolo invisibile virus sconosciuto in particolare sul lavoro, il mio lavoro, spaventa ma non mi fermo”.

 

Lui si chiama Luigi Celiento e non fa un lavoro, lui è quel lavoro, perché Luigi è un infermiere, e se a questa figura professionale è largamente riconosciuta stima e fiducia in tempi di pace, ancora di più oggi, come si suol dire in tempi di guerra.

Ormai sono numerose le voci che si alzano a ringraziare questi uomini e donne che sono presenti in prima linea sul fronte del contagio, sui luoghi del dolore. Loro non possono scegliere di restare a casa, sono obbligati ad essere presenti, quell’obbligo non è solo professionale ma morale.

Luigi è un uomo di 50 anni con una bella famiglia, moglie e figlio, ed è consapevole del proprio ruolo, dei rischi che corre e di cosa sta accadendo. E quello che ha scritto in una sorta di lettera aperta, tocca il cuore di tutti e soprattutto fa riflettere ognuno di noi, sul valore che stiano dando alle nostre vite e a quelle degli altri. Su cosa significa combattere contro questo nemico invisibile con le armi della responsabilità personale e di una coscienza collettiva. Di seguito:

“Sono un infermiere che lavora da più di venti anni e non ho mai avuto paura delle malattie, credetemi, ma in questo momento mi trovo ad affrontare un’emergenza sanitaria e ho paura!

Incontrare questo piccolo invisibile virus sconosciuto in particolare sul lavoro, il mio lavoro, spaventa ma non mi fermo.

Non voglio vergognarmi, ho paura, forse perché la mascherina non ha aderito bene al viso mentre aiutavo un paziente, perché potrei essermi toccato accidentalmente con i guanti sporchi o, chissà magari le lenti non mi hanno coperto bene gli occhi.

Ti prende anche la stanchezza mentale nel dover ricordare ogni passaggio, ogni istruzione operativa per non commettere errori, per te e per i tuoi colleghi, perché non ci è permesso commettere errori, in questo momento.

Dobbiamo preservarci per aiutare gli altri, ora più che mai, contano tutti e dico tutti su noi sanitari. ZERO ERRORI o almeno ci si prova, mamma mia che responsabilità.

Ma la paura più grande è portarla ai miei cari! Quando torno a casa sono stanco non fisicamente ma psicologicamente, come me lo sono tutti i miei colleghi che da settimane si trovano nella mia stessa condizione ma questo non ci impedisce di svolgere il nostro lavoro con il massimo sforzo.

Continuerò a prendermi cura dei miei pazienti perché sono fiero e innamorato di quel che faccio. Sapete noi non siamo immuni dal coronavirus, possiamo ammalarci o peggio fare ammalare e per questo vorrei che vi metteste nei nostri panni quando chiediamo aiuto indirettamente.

Spesso in questo periodo lo facciamo anche tra noi, esponendo ai colleghi le nostre titubanze, cercando nei loro occhi un sorriso che sia come un abbraccio dopo un turno sconfortante.

È quello che chiediamo ai nostri parenti, amici, utenti non siate indifferenti alle nostre richieste e, non vanificate il nostro lavoro ignorando le disposizioni. Pensate che anche a noi a fine giornata scende a volte una lacrima, per l’impotenza che in alcuni momenti diventa assordante davanti a un grido d’aiuto”.