Occlusioni coronariche croniche

Occlusioni coronariche croniche

30 Dicembre 2019 0 Di La Redazione

Il convegno ha riunito gli esperti di interventistica coronarica complessa italiana che hanno esaminato tutti gli aspetti clinici e tecnico-procedurali delle ricanalizzazioni della patologia.

 

Giuseppe TarantiniLa procedura coronarica percutanea (Pci) nelle occlusioni coronariche croniche (Cto) si è evoluta nell’ultimo decennio e sta raggiungendo una fase di standardizzazione nella terminologia e nella pratica. Il paziente affetto da occlusioni coronariche acute, pur con gravi comorbidità e estrema complessità delle lesioni, è trattato con una percentuale di successo superiore al 90%.

Tali risultati sono fortemente legati al volume delle procedure del centro e dell’operatore. Queste le conclusioni del congresso chiuso a Napoli dal Gise (Società italiana di cardiologia interventistica) e dedicato interamente a quelle che vengono definite le occlusioni coronariche acute trattate con procedura percutanea. “Parliamo dell’avanguardia dell’interventistica cardiovascolare complessa – ha affermato il presidente del Gise, Giuseppe Tarantini ( in foto ) – ma l’elevata difficoltà tecnica, il timore di complicanze da parte di operatori meno esperti e l’assenza di strumentazioni adeguate in alcuni laboratori portano ad una grande variabilità nel numero delle occlusioni coronariche croniche  effettuate nelle 267 emodinamiche italiane”.

Il convegno ha riunito gli esperti di interventistica coronarica complessa italiana che, a partire da casi clinici registrati o interventi trasmessi in diretta e discussi interattivamente, hanno esaminato tutti gli aspetti clinici e tecnico-procedurali delle ricanalizzazioni delle occlusioni coronariche croniche. “Le procedure percutanee coronariche sono indicate in quasi il 20% dei pazienti affetti da coronaropatia, percentuale che aumenta con l’avanzare dell’età – ha ricordato Tarantini – come Gise dobbiamo sempre più attivare percorsi di formazione perché un più ampio numero di persone possa beneficiare di queste procedure interventistiche che richiedono preparazione specifica e training accurati. In Italia nel 2018 ne sono state effettuate 6.158, ma se su tutte le angioplastiche il tasso è del 3,5%, nei 7 centri di eccellenza si arriva al 7%. Consideriamo inoltre che lo scorso anno solo nel 22% dei casi sottoposti a procedura percutanea si è indicata la occlusione coronarica cronica. Le motivazioni sono state principalmente legate alla mancanza di strumenti idonei e a scarsa preparazione ed esperienza”.

Centrale il ruolo del Gise nell’armonizzare le conoscenze, rendendo più esteso e omogeneo l’uso di tale procedura. “Una formazione continua a riguardo, che entri nel merito delle indicazioni, dell’evoluzione delle tecniche e delle tecnologie – ha dichiarato Tarantini – ha un ruolo chiave per una diffusione non solo più estesa, ma anche più omogenea di tali procedure. Il trattamento dei pazienti con coronaropatia aterosclerotica deve essere affrontato in modo uniforme, con tecniche comuni e soprattutto evitando che la scelta terapeutica sia condizionata dalla disponibilità o meno dei materiali e di un esperto in occlusioni coronariche croniche.

Le Cto-Pci rimangono un mezzo e non un fine dell’attività di un moderno cardiologo interventista. L’obiettivo finale è selezionare casi appropriati con forti indicazioni alla procedura percutanea, evitando di condannare il paziente ad una terapia medica inefficace solo perché un operatore o un centro sentono di non avere gli strumenti, il tempo o la preparazione per offrire un’ottimale procedura di rivascolarizzazione percutanea. In sintesi penso che il termine occlusioni coronariche croniche da “chronic total occlusion” diventerà “complex treatment optimization”.