Marco Lionetti: “La differenza la fa il fuoco che ti brucia in pancia”

Marco Lionetti: “La differenza la fa il fuoco che ti brucia in pancia”

15 Agosto 2023 Off Di Marco Magliulo & Pasquale Maria Sansone

Quando guardiamo al mondo dello sport spesso pensiamo ad un mondo patinato fatto di luci e di ribalte. In realtà dietro questa visione si nasconde un mondo ben più complesso che è fatto di voglia di emergere, sacrifici e tanta forza di volontà.

Per arrivare nella massima serie, quest’anno, come assistente di Alberto Giuliani, il mio percorso è partito, anzi ripartito, dal 2013 in seconda divisione, a casa, in Calabria, lo stesso posto da cui a 14 anni è partita la mia carriera da giocatore grazie a Camillo Plací che fu il primo a vedere in me un talento. Ho deciso di fare la gavetta e crearmi il mio percorso da allenatore partendo dal basso, avrei avuto la possibilità, a fine carriera, di affiancare qualche mio bravissimo maestro, ma ho preso esempio da mio fratello più piccolo ed ho iniziato cercandomi i problemi da risolvere, in tre anni sono arrivato alla C, poi la B ad Orvieto e l’A2 a Spoleto. Un percorso fatto di rapporti con le persone e di gestione di ciò che mi stava intorno. La Solitudine e il dover ricominciare erano sempre presenti perché, quando fai l’allenatore, devi un po’ distaccarti dal resto, fare il giocatore è più semplice. 

Chi è stato a spingerla all’attività sportiva tanto da trasformarla in agonistica? o si è trattato di una folgorazione magari guardando ai modelli dei grandi campioni?

Giocavo a calcio, poi grazie al miglior amico di mio papà, Gaetano, ho provato a fare pallavolo e facendo entrambe le cose i due sport mi portarono ad una scelta, scelsi la pallavolo per l’ambiente. I miei amici di allora lo sono tutt’ora. Ingeneri, avvocati ed un astrofisico tra questi, sono sempre presenti nella mia vita dopo 30 anni. 

Al di là delle doti personali e delle attitudini, quanto contano impegno e determinazione nel raggiungimento degli obiettivi?

Nel mio caso, provenendo dal nulla, non essendo figlio d’arte nè figlio di qualche allenatore che spinge i figli, ho dovuto conquistarmi tutto col sudore della fronte e con tanti sacrifici in giro per l’Italia. Se non fossi stato così ostinato e deciso, avrei smesso quando mi mandarono via a 17 anni. Da allora sono tornato in Calabria ad allenarci 15 anni dopo e dopo aver conquistato quattro promozioni, 2 coppe Italia di B1 e qualche play off ma mai nella mia città. 

Se dovesse dare qualche “consiglio utile” ai ragazzi  che si avvicinano alla sua specialità, cosa suggerirebbe?

Ne darei due:  di vivere lo sport in modo passionale e di capire, fin da subito, se si è disposti a ripartire dopo le delusioni e gli infortuni , perché ce ne saranno dieci volte di più dei successi. Il secondo è di allenarsi, quando si può, con altri gruppi, altri allenatori e d’estate nei Camp. Spesso i ragazzi lasciano lo sport perché non trovano empatia con l’allenatore del momento. Guardare fuori dal proprio giardino può far capire ai ragazzi che non esiste un solo modo di allenarsi così come non esiste una sola strada per la vittoria. 

Quello dell’allenatore può essere uno sbocco naturale alla fine di una carriera sportiva. Non sempre però un grande atleta riesce ad essere anche un grande allenatore. Che cosa fa la differenza?

Per fortuna non sono stato un campione e non so cosa voglia dire proiettare se stesso sui ragazzi. Tutto ciò che ho imparato l’ho “rubato” da chiunque avessi accanto. Dal giocatore furbo ma scarso, dal campione svogliato, dallo stakanovista al talento di periferia ed ovviamente dai modelli tecnici e dai leader. La differenza, per citare un mio maestro, la fa il fuoco che ti brucia in pancia,

Finché ce l’hai i giocatori lo percepiscono e ti seguono. Quando smetti di essere curioso, di farti delle domande e di cercare soluzioni è meglio smettere.