Aurelio Musi, “Storia della solitudine”

Aurelio Musi, “Storia della solitudine”

17 Aprile 2021 0 Di Anna Mozzi e Pasquale Maria Sansone

 

Come definire il disastro pandemico? Un evento epocale di straordinaria portata. Chi si sarebbe mai aspettato di ripiombare in un’atmosfera cupa e greve da Alto Medioevo? Sembra essere tornata la peste bubbonica, che falcidiò tragicamente la popolazione europea.

A tal proposito occorre consultare uno storico di vaglia per provare a fare parallelismi con altri periodi lontani secoli.

Ne parliamo con Aurelio Musi, Professore ordinario di Storia Moderna presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Salerno. Condirettore di “Nuova Rivista Storica”. Accademico della “Real Academia de la Historia di Madrid”.Membro del direttivo della Società Salernitana di Storia Patria. Giornalista pubblicista. Editorialista delle pagine napoletane de “La Repubblica”.

Come ha vissuto e vive Aurelio Musi la paura della pandemia ed il disagio legato alle inevitabili, indispensabili misure restrittive?

Come tutte le persone anziane responsabili, la ragione mi induce al rispetto rigoroso di tutte le misure restrittive, alla difesa dell’integrità fisica – sono “fragile” perché trapiantato di midollo osseo – alla tutela di me stesso e degli altri. Peraltro, essendo un ricercatore, uno studioso e uno scrittore, ho colto e colgo la condizione forzata di clausura per ritrovare quella che nel mio volume appena pubblicato da Neri Pozza, “Storia della solitudine”, ho definito la “beata solitudine”. L’emotività e il sentimento mi portano invece ad avvertire il vuoto del rapporto con gli altri, la perdita di quella gioia di vivere che fanno parte integrante del mio carattere. Conciliare ragione ed emotività non è facile.

L’evento tragico della pandemia che, purtroppo, ci vede protagonisti, potrebbe avere dei precedenti nella storia passata o ha proprio i caratteri dell’unicità e della originalità?

Continuità e discontinuità, precedenti e novità convivono nel Covid-19, nelle sue dinamiche e nei suoi effetti. Già Tucidide, quattro secoli prima di Cristo, raccontando la peste di Atene, aveva individuato nei comportamenti degli ateniesi qualcosa che a noi è familiare: soprattutto l’anarchia dei poteri concorrenti fra di loro nella gestione dell’epidemia; il “cupio dissolvi” della popolazione che si abbandonava a tutti i possibili piaceri pur di cogliere l’attimo fuggente, senza curarsi dei rischi che si correvano. Ma motivi ricorrenti sono anche nelle diverse ondate di peste durante il Medioevo e in altri eventi pandemici dell’Età moderna. L’unicità di questa pandemia sta nel fatto che è la prima dell’epoca della globalizzazione che si combatte contro un nemico subdolo e invisibile.  Ma, al tempo stesso, la sua originalità positiva sta nell’accelerazione dei tempi, rispetto al passato, della produzione e utilizzazione dei vaccini: effetto, questo, del sempre più rapido processo di innovazione tecnologica della nostra epoca.

Il mondo universitario e, più in generale, quello della Scuola ha dovuto inventarsi la DAD per poter continuare ad operare. Quali i pregi e quali i difetti di questa modalità didattica d’emergenza?

Nei confronti della didattica a distanza va assunto un atteggiamento equilibrato: non va né demonizzata né magnificata. Ci ha consentito e ci consente di far fronte alla continuazione del processo di scolarizzazione e educazione utilizzando gli strumenti informatici durante il lockdown. Ma la sua piena e soddisfacente utilizzazione ha incontrato e incontra alcuni ostacoli: la non adeguata formazione dei docenti all’uso di questi nuovi strumenti tecnologici per l’insegnamento; la loro limitata diffusione e conoscenza tecnica fra le fasce di popolazione meno abbiente e meno istruita; la tendenza quindi ad allontanare queste fasce dalla frequenza scolastica, non ad avvicinarle. E poi i costi psicologici della Dad sono stati e sono altissimi e si pagheranno ancora nel futuro: mi riferisco soprattutto agli effetti su bambini e ragazzi della mancanza di socializzazione e del rapporto diretto con i docenti.

Mentre in Spagna musei e teatri sono rimasti aperti ed in sicurezza sono stati frequentati da tantissimi fruitori di cultura, l’Italia, patria del Rinascimento, ha preferito chiudere. Qual è il Suo pensiero al riguardo?

È questo uno dei tanti aspetti dei limiti evidenti nella gestione politica della pandemia in Italia. Con accorgimenti e regole di distanziamento valide sull’intero territorio nazionale, non solo musei, teatri, cinema, ma anche archivi, biblioteche e altri beni culturali di conservazione, studio e ricerca, sarebbero potuti rimanere aperti e fruibili, limitando così sia i contraccolpi della pandemia sull’uso del tempo libero e sulla socializzazione della popolazione, sia soprattutto le conseguenze negative in termini di occupazione. Dobbiamo ancora una volta registrare il fatto che le nostre classi dirigenti hanno una concezione residuale, per così dire, e non centrale della cultura. Basti pensare che, mentre in alcuni paesi europei gli investimenti in cultura assorbono fino al 5% del bilancio nazionale, qui da noi arriviamo ad uno stentoreo 1,5 – 2%.