Vangelo in Salute: la Parola che Cura: i 10 lebbrosi

Vangelo in Salute: la Parola che Cura: i 10 lebbrosi

12 Ottobre 2025 Off Di Fabio De Biase

La fede che guarisce è quella che sa ringraziare: solo chi riconosce il dono, torna davvero alla vita.

Il Vangelo della XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Lc 17,11-19) ci conduce lungo la strada tra la Galilea e la Samaria, dove Gesù incontra dieci lebbrosi che gli gridano da lontano: “Gesù, Maestro, abbi pietà di noi!” È il grido universale dell’umanità ferita, la preghiera di chi non ha più volto né nome, di chi vive escluso ai margini.

Gesù non li tocca, non compie gesti straordinari. Si limita a dire: “Andate a presentarvi ai sacerdoti.” E mentre vanno, vengono guariti. È lungo il cammino che la guarigione si compie: non prima, non dopo. È nella fiducia che la Parola di Gesù si rivela efficace.

Ma la sorpresa arriva dopo: dei dieci guariti, solo uno torna indietro a ringraziare. E Gesù, con una domanda che brucia, chiede: “Non ne sono stati guariti dieci? E gli altri nove dove sono?”

La lebbra di oggi non è solo quella del corpo, ma quella del cuore: l’ingratitudine. È la malattia spirituale più diffusa, quella che ci fa credere che tutto ci sia dovuto, che nulla sia dono. È la febbre del possesso, che ci impedisce di riconoscere la grazia e di dire grazie.

I nove guariti sono l’immagine di un’umanità che riceve molto ma dimentica subito. Hanno ottenuto la salute, ma hanno perso la relazione. Si sono concentrati sul miracolo e non sul volto di Colui che li ha guariti. Il ringraziamento, invece, è l’atto che salva, perché trasforma la guarigione esteriore in salvezza interiore.

Gesù non rimprovera per mancanza di buona educazione, ma per mancanza di fede. Perché la fede vera non è solo chiedere, ma anche riconoscere. Non è solo ricevere, ma restituire. Non è solo essere guariti, ma tornare a Dio per vivere da salvati.

Il Samaritano che torna indietro è l’unico che comprende davvero cosa è accaduto. È straniero, considerato impuro due volte — per la malattia e per la sua origine — ma è l’unico a comprendere il cuore del Vangelo. Torna, si prostra ai piedi di Gesù e lo ringrazia. In quell’atto, semplice e profondo, la sua fede si fa riconoscenza, e la riconoscenza diventa salvezza.

Gesù lo guarda e dice: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato.” Non dice “ti ha guarito”, ma “ti ha salvato”. C’è una differenza enorme: gli altri nove sono guariti nel corpo, ma quest’uomo è guarito anche nel cuore.

La gratitudine è la medicina che sana la distanza, che restituisce senso alla vita, che ridona la relazione con Dio. Solo chi ringrazia diventa capace di comunione.

In questa Domenica di Tuttosanità, la Parola ci invita a un check-up spirituale importante: quanto spazio ha il “grazie” nella nostra vita?

Viviamo in una società ammalata di pretesa, dove tutto è dovuto, tutto è diritto, nulla è dono. Ci lamentiamo più di quanto ringraziamo, chiediamo più di quanto riconosciamo. Ma la gratitudine è la vera fonte di salute interiore: un cuore che ringrazia è un cuore sano, libero, pacificato.

Dire grazie a Dio, agli altri, alla vita — anche nelle fatiche — è già guarigione. È il segno di un’anima che non vive di lamentele, ma di stupore. È il respiro del discepolo che riconosce ogni cosa come grazia e sa che nulla gli appartiene per davvero.

La terapia che il Vangelo ci offre è la conversione dello sguardo: imparare a vedere il bene prima del male, il dono prima della mancanza, la grazia prima del dovere.

Il Vangelo di oggi parla anche alla Chiesa. Una comunità che non ringrazia, che non riconosce i segni di Dio nella storia, si ammala di sfiducia e di stanchezza.

La Chiesa è sana quando sa dire grazie: per i suoi santi nascosti, per i suoi poveri che evangelizzano, per i giovani che cercano, per i malati che offrono la loro sofferenza, per le famiglie che resistono. Una Chiesa grata non è una Chiesa cieca di fronte ai problemi, ma una Chiesa che vede la grazia all’opera anche nelle ferite.

E anche noi, sacerdoti e credenti, dobbiamo guarire dalla tentazione di lamentarci: della società, dei tempi, delle difficoltà. La fede si ammala quando diventa lamento. Guarisce quando diventa rendimento di grazie.

La vera fede non è quella che cerca miracoli, ma quella che riconosce i miracoli nascosti. È quella che sa ringraziare per il dono della vita, anche quando non è perfetta; per la Chiesa, anche quando è ferita; per gli altri, anche quando ci deludono.

Ringraziare non è un gesto di cortesia, ma un atto teologico: significa riconoscere che Dio è all’opera e che nulla è frutto solo delle nostre mani. È credere che tutto viene da Lui, e tutto a Lui ritorna.

Il Samaritano ci insegna che la fede più grande è quella che si piega per adorare. E che la vera salute spirituale nasce da un cuore eucaristico — “eucaristia” infatti significa proprio “rendimento di grazie”.

Per riflettere: guariti per ringraziare

Solo chi sa ringraziare è davvero guarito. Gli altri nove sono rimasti prigionieri di se stessi, anche se fisicamente sani. Il Samaritano, invece, torna libero, perché ha scoperto il volto del Donatore.

E allora anche noi possiamo domandarci: quante volte Dio mi ha guarito, sostenuto, consolato… e io non sono tornato a ringraziare? Quante grazie ho ricevuto che non ho mai riconosciuto?

Il Vangelo ci invita oggi a un gesto semplice e potente: fermarci, tornare indietro, e dire “grazie”. È il primo passo per ritrovare la salute dell’anima.

Perché la vita non è piena quando ottiene tutto ciò che chiede, ma quando riconosce tutto ciò che riceve. E la fede, quando diventa gratitudine, si trasforma in gioia: la gioia di chi, come il Samaritano, ha capito che il vero miracolo non è solo essere guariti, ma essere amati.