L’alcolismo negli homeless si può curare

L’alcolismo negli homeless si può curare

24 Agosto 2020 0 Di Luigi De Rosa

Le potenzialità ci sarebbero tutte, come ha dimostrato uno studio condotto dal gruppo del professor Giovanni Addolorato, responsabile dell’Unità di Medicina Interna e Patologie alcol-correlate del “Gemelli”.

 

I senza fissa dimora popolano le nostre città e sono purtroppo una triste realtà che si trasforma in tragedia umana quando diventano centro di quella cultura dello scarto, che rende le nostre comunità disumane. Gli homeless spesso chiedono pochi centesimi di elemosina, non per mangiare ma per comprare uno di quei cartoni di pessimo vino a poco prezzo che mettono a dura prova la tenuta dei loro apparati digerenti. Nessuno dà loro una chance di riabilitarsi, anche se le potenzialità ci sarebbero tutte, come ha dimostrato uno studio condotto dal gruppo del professor Giovanni Addolorato, responsabile dell’Unità di Medicina Interna e Patologie alcol-correlate che opera nel Dipartimento di Scienze mediche chirurgiche del “Gemelli”, diretto dal professor Antonio Gasbarrini, che è stato appena pubblicato su “Alcohol and Alcoholism “, rivista medica bimestrale dell’European Society for Biomedical Research on Alcoholism, con H.D. Chalke come redattore fondatore. Nel progetto del gruppo di lavoro del “Gemelli” c’è stato spazio per tutti a prescindere da età, genere e credo religioso. Per la prima parte del trattamento, i pazienti arruolati venivano ricoverati in reparto, per gestire meglio la fase acuta, sottoporli a esami per quantificare i danni causati dall’alcol, trattare la sindrome d’astinenza e le patologie alcol-correlate. Alla dimissione, alcuni di loro sono stati accolti nella Villetta della Misercordia (Centro d’accoglienza al Gemelli per le persone senza dimora), mentre agli altri sono state offerte delle soluzioni abitative alternative. Tutti sono stati seguiti in ambulatorio per circa un anno. I risultati di questo esperimento medico-sociale hanno sconfessato tutti coloro che ritengono che queste persone non siano recuperabili. Una quota importante di pazienti del progetto, infatti, è riuscita a ridurre in maniera significativa l’abuso di alcol. Questo studio, pubblicato dunque sul bimestrale “Alcohol and Alcoholism journal”, toglie qualsiasi alibi a chi ritiene che trattare un disturbo di abuso di alcol in un homeless sia pura utopia. È stato dimostrato non solo che è fattibile, ma che ha un impatto davvero importante perché, a parità di quantità di alcol assunta, un paziente che vive per strada, ha molte più probabilità di morire. È chiaro che questo modello per funzionare deve avvalersi dell’operato degli assistenti sociali oltre che delle Associazioni di volontariato (insostituibile l’attività dei volontari della Comunità di Sant’Egidio in quest’esperienza romana). Queste persone, infatti, oltre a essere curate, vanno reintegrate, da un punto di vista lavorativo e abitativo. La maggior parte dei pazienti che ha partecipato al progetto ha trovato sia una casa, che un lavoro. Ci auguriamo che quest’esperienza venga proposta ad altre strutture sanitarie in Italia perché nessun uomo è uno scarto.