Italia, diminuisco i casi di tumore al rene

Italia, diminuisco i casi di tumore al rene

20 Giugno 2020 0 Di La Redazione

Massimo Di Maio, segretario Aiom: “È dimostrato che l’attività fisica praticata con costanza è in grado di ridurre fino al 22% il rischio di sviluppare la malattia”.

 

Diminuiscono i nuovi casi di tumore del rene in Italia. In tre anni, sono state registrate complessivamente 800 diagnosi in meno, con un calo del 6%. Erano 13.400 nel 2016, ne sono state stimate 12.600 nel 2019. Peraltro la diminuzione riguarda soltanto gli uomini (da 8.900 a 8.100), l’incidenza della neoplasia invece resta costante fra le donne (4.500). Preoccupa l’alto numero di casi scoperti in fase già avanzata, pari a circa il 30%. E resta la forte resistenza dei cittadini nei confronti della prevenzione primaria (no al fumo, attività fisica costante e dieta corretta). Nella lotta contro la malattia, infatti gli stili di vita rivestono un ruolo molto importante, in particolare l’attività fisica. E proprio al movimento è dedicata la giornata mondiale contro il tumore del rene. “È dimostrato che l’attività fisica praticata con costanza è in grado di ridurre fino al 22% il rischio di sviluppare la malattia – spiega Massimo Di Maio, segretario Aiom (Associazione italiana di oncologia medica) e direttore oncologia dell’Ospedale Mauriziano, Università degli Studi di Torino – non solo. Anche nei pazienti che hanno già ricevuto la diagnosi, il movimento può migliorare del 15% i risultati dei trattamenti, riducendo fatigue, ansia e depressione, con un impatto positivo sulla qualità di vita. Si tratta di risultati paragonabili a quelli di un farmaco efficace. Purtroppo, in Italia, ben il 34,5% dei cittadini è sedentario e, fra i pazienti con tumore del rene, questa percentuale cresce fino al 75%. Serve più impegno per far comprendere a tutti i grandi benefici del movimento”. Nel mondo, nel 2018, il cancro del rene ha colpito più di 403.260 persone. “I principali sintomi sono sangue nelle urine, dolore al fianco e presenza di una massa palpabile a livello addominale, spesso presenti solo in fase metastatica – afferma Cristina Masini, struttura complessa oncologia Reggio Emilia -. Circa il 60% delle diagnosi è casuale e avviene di solito tramite un’ecografia addominale eseguita per altri motivi, senza sintomi specifici. Una casualità che presenta conseguenze positive, perché in questo modo la malattia può essere individuata precocemente e curata con successo. Se riusciamo a intervenire durante le prime fasi della patologia, le guarigioni superano il 50%. Ma circa il 30% delle diagnosi avviene ancora in stadio avanzato. In questi casi, il tasso di sopravvivenza a 5 anni è del 12%, ma in graduale aumento grazie a terapie innovative”.  “Ad esempio cabozantinib – sottolinea Cristina Masini – è un nuovo inibitore delle tirosin-chinasi, che ha dimostrato di essere particolarmente efficace nei pazienti in fase metastatica. Svolge un’azione anti-angiogenica, riuscendo a fermare la formazione di vasi sanguigni. Il farmaco, che era già stato approvato per il trattamento del carcinoma renale avanzato negli adulti precedentemente trattati con terapia anti Vegf, da settembre dello scorso anno, è disponibile in Italia anche come trattamento di prima linea”.

Nel nostro Paese vivono più di 129mila persone con la diagnosi. “Nei tumori renali la chemioterapia è, storicamente, poco efficace – sottolinea il professore Di Maio – un tempo la nefrectomia totale, cioè l’asportazione totale del rene, era un intervento indispensabile, oggi esistono tecniche chirurgiche che risparmiano parte del rene e, in caso di malattia metastatica, l’opportunità della chirurgia si valuta caso per caso. È tramontato il vecchio paradigma secondo il quale la massima asportazione di tessuto garantisce le migliori possibilità di cura. Quindi, oggi, abbiamo più armi da inserire in una strategia di cura che vede chirurgia, radioterapia, terapie mirate e immunoterapia, migliorando in maniera significativa la capacità di gestione complessiva della neoplasia metastatica. L’obiettivo è rendere cronica la malattia, garantendo una buona qualità di vita. Inoltre, la collaborazione multidisciplinare tra chirurghi, urologi, oncologi medici, radioterapisti, anatomopatologi, psico-oncologi e medici nucleari non deve essere più un’opzione ma un obbligo. Purtroppo sono ancora pochi sul territorio i team multidisciplinari dedicati, sul modello delle Breast Unit per il carcinoma della mammella. Da una medicina basata sul singolo specialista si deve arrivare alla scelta della migliore terapia attraverso la discussione condivisa e il confronto tra più professionisti”.