Daniela Pavoncello, durante la pandemia la socialità è stata annullata

Daniela Pavoncello, durante la pandemia la socialità è stata annullata

16 Marzo 2021 0 Di Anna Mozzi e Pasquale Maria Sansone

La “negazione”, quale meccanismo difensivo psichico inconscio, è caratterizzata in primis dall’incapacità di stabilire un sano confronto con la realtà a causa di una “cecità psichica” nelle proprie strategie argomentative: ha cioè una funzione essenzialmente violenta e annichilente, che cancella ogni possibilità di confronto con l’altro nel discorso. 

Negare l’esistenza del virus, negare la Shoah sono fenomeni diversi, ma le strategie argomentative di chi nega per esorcizzare una realtà psicologicamente inaccettabile sono fondamentalmente le stesse. Parliamo di questo con Daniela Pavoncello, Psicologa Psicoterapeuta. Ricercatrice presso l’INAPP collabora all’interno della struttura “Inclusione Sociale”, si occupa dei temi rivolti alla fascia giovanile ed in particolare all’area del disagio e della disabilità. Ha un’esperienza pluriennale nel settore delle politiche attive del lavoro. Ha condotto sul tema ricerche e progetti in ambito nazionale e comunitario. Ha svolto attività di consulenza in numerose Scuole di ogni ordine e grado e Centri di formazione professionale per la progettazione e la gestione di interventi di orientamento rivolti a gruppi di giovani e per la Formazione di Insegnanti/Formatori. Inoltre ha condotto esperienze di bilancio di competenze in ambito aziendale e formativo.

Ha pubblicato numerosi articoli a carattere psicopedagogico in diverse Riviste Scientifiche Nazionali ed Internazionali riguardanti le metodologie, gli strumenti utilizzati nella prassi dell’orientamento, della formazione professionale.

Ha ricoperto diversi ruoli istituzionali: Membro dell’Osservatorio Nazionale per le persone con disabilità, componente della rete rurale nazionale….

Nell’ambito delle Istituzioni ebraiche ha ricoperto diversi incarichi:

dal 2000 al 2004 Assessore Politiche Giovanili, Formazione e Personale;

dal 2004 al 2008 Consigliere della Deputazione assistenza ebraica;

dal 2012 al 2016 Consigliere Ucei, Coordinatrice della commissione Scuola, giovani e formazione;

Dal 2019 al 2022 Consigliere della Comunità Ebraica di Roma.

Come ha affrontato ed affronta Daniela Pavoncello la paura della pandemia ed il disagio per le inevitabili, indispensabili misure restrittive?

È un periodo estremamente difficile per tutti, la paura dell’incertezza, del contagio e del futuro domina i pensieri di molte persone. Soprattutto le donne dimostrano di avere maggiormente timore e preoccupazione per il futuro. Da alcuni dati recentemente pubblicati dall’IPSOS per conto di WEWord emerge che circa l’80% delle donne dichiara un impatto devastante sulle proprie relazioni sociali, il 46% sulla propria voglia di vivere, il 76% delle donne ha visto un impatto negativo sulla voglia di fare progetti per la propria vita. Tra le più giovani la pandemia ha avuto un impatto fortemente negativo sulla propria autostima mentre per le donne meno giovani l’83% ha sofferto maggiormente sul fronte relazionale. Posso confermare questo dato in quanto il distanziamento sociale, ha provocato anche un distanziamento affettivo, emotivo e relazionale non indifferente.

Molti vedono la crisi pandemica come un evento apocalittico alla stregua della Seconda Guerra Mondiale e della persecuzione degli Ebrei. Quali le similitudini e quali le differenze?

La differenza è sostanziale durante la seconda guerra mondiale, soprattutto per le persone di religione ebraica, c’erano le persecuzioni razziali, la paura di essere deportato nei campi di concentramento, l’angoscia di perdere i tuoi cari, il rischio di essere “scoperto” o finire sotto i bombardamenti. Ora il pericolo è davanti ad un nemico invisibile, che riesci a controllare parzialmente mettendo in atto gli accorgimenti consigliati per la prevenzione del covid. Il rapporto con gli altri è solo sul digitale: le amicizie, il lavoro, le feste virtuali. 

Tra i due eventi catastrofici possiamo dire che durante la guerra c’era un contatto fisico ed emotivo tra i famigliari e gli amici che rassicurava, durante la pandemia la socialità è stata annullata e la solidarietà è virtuale.

Quale è stato l’impatto della pandemia con adolescenti e giovani, alcuni di questi già in disagio per disabilità e conseguente difficoltà d’inserimento?

Per i giovani la pandemia è vissuta con grande disagio: la scuola è, oltre un ambiente di apprendimento, un luogo di socialità che in questa fase evolutiva è fondamentale per la costruzione di un’identità personale, formativa ed anche professionale, la DAD ha creato molte difficoltà ma soprattutto ha aumentato le diseguaglianze sociali. La scuola è il luogo dove i bambini, e ancor di più gli adolescenti, sperimentano relazioni positive, cioè relazioni con i coetanei, spesso mediate da adulti, che hanno una funzione educatrice molto importante. Chiudere questo tipo di esperienze lascia i ragazzi soli ma anche privi di strumenti per compensare le loro ansie (Vicari, 2020). Le reazioni sono state molto ambivalenti: Da una parte si trovano ragazzi rinchiusi in casa, in una sorta di autismo informatico, il rapporto è strettamente connesso al PC. Nella seconda ondata della pandemia si è registrato un forte aumento delle richieste di aiuto di circa 25/30 % in più. Ma il dato più drammatico riguarda il netto aumento dei tentativi di suicidio. o comunque di attività di autolesionismo. La chiusura delle scuole all’inizio dell’anno scolastico, almeno per la secondaria di secondo grado, ha coinciso con l’assenza dei genitori, che nella maggior parte dei casi avevano ripreso la propria attività lavorativa, e questo probabilmente ha ridotto gli strumenti di difesa dei ragazzi, in qualche modo si sono sentiti più soli. La solitudine è l’aspetto che più frequentemente i ragazzi avvertono.

Per i giovani con disabilità, il problema è stato altro, oltre la mancanza della socialità, non frequentando la scuola, hanno vissuto l’isolamento assoluto e, purtroppo per i genitori, l’assenza dell’assistenza domiciliare. L’inserimento lavorativo è praticamente nulla se consideriamo che l’adempimento della L. 68, ovvero il collocamento obbligatorio durante la pandemia è stato sospeso

In quest’epoca di pandemia quali strategie si possono adottare per bambini, adolescenti e giovani, a livello di contesto ecologico, di contesto familiare con problematiche interpersonali e difficoltà emotive individuali, per prevenire i fattori di rischio di disagio e di devianza?

La singolarità di questo momento richiede una speciale attenzione in chiave interdisciplinare che possa cogliere la dinamicità del mondo giovanile. Il senso di incertezza per il futuro, l’isolamento sociale vissuto, la vaghezza delle politiche riguardanti il mondo giovanile e dei loro effetti a lungo termine in ottica di reale opportunità di inclusione socio-lavorativa è un elemento che, come emerge dalla letteratura, è comune a molte realtà non solo nazionali ma anche internazionali (Buddelmeyer e Marks, 2010; Cherednichenko, 2010; González-Rivera, 2014). Ciò se da un lato produce preoccupazione, dall’altro fa emergere l’urgenza costruttiva di definire nuove strategie educative.

La mancanza di progettualità e la necessità del tutto e subito riporta la riflessione sulle spinte motivazionali che sono il motore, la spinta verso l’autorealizzazione. E allora parlare oggi di orientamento significa porre l’attenzione non tanto sul riconoscere capacità, attitudini, interessi, etc. per una piena valorizzazione delle risorse personali ma porre l’accento sul significato che queste risorse hanno in prospettiva di una effettiva realizzazione del sé, nella costruzione di un progetto personale e professionale. Ma come è possibile richiamare all’altro su questi contenuti se la prospettiva temporale è pressoché inesistente? Allora ritengo che convenga riflettere sul significato di che cosa significa orientare oggi un giovane. Fornire quegli strumenti di autoanalisi può essere utile ma aiutarlo a crescere e riconoscere consapevolmente le sue paure di crescita, le sue ansie sul futuro, le false aspirazioni genitoriali, l’incapacità a gestire le sue frustrazioni possono sicuramente aiutarlo a mettere a nudo la sua crisi di identità. Ed allora il compito degli educatori è porre l’attenzione su come promuovere all’interno delle attività didattiche, educative la dimensione affettiva, relazionale ed emotiva. Tali dimensioni consentirebbero al giovane di ritrovare se stesso e riconoscere se stesso come unico ed irripetibile.