Coronavirus: situazione della pandemia, in Italia e nel mondo

Coronavirus: situazione della pandemia, in Italia e nel mondo

20 Marzo 2020 0 Di Carlo Alfaro*

Secondo il GIMBE, in realtà in Italia ci sono almeno 100mila casi di contagiati dal Covid-19, di cui 70mila non identificati.

 

Sale a 35.713, secondo i dati forniti dalla Protezione civile alle 18 del 18 marzo, il numero di casi positivi al Coronavirus SARS-Cov 2 in Italia, con un aumento di 4.207 unità in un giorno, il più alto dall’inizio dell’epidemia. Il bilancio dei decessi sale a 2.978, anche qui con un incremento mai registrato di 475 in un giorno. Secondo i dati di Epicentro, al 16 marzo, 106 province italiane su 107 (tutte ad eccezione di Isernia) hanno segnalato almeno un caso di Covid-19. I casi si concentrano soprattutto nel Nord Italia, in particolare in Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, e nelle Marche. Nel Mondo, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al 18 marzo ci sono 207.860 casi confermati dall’inizio dell’epidemia, con 8.657 morti in 166 Paesi o Regioni, di cui in Cina 81.174 casi con 3.242 morti, e negli altri Paesi 126.686 casi con 5.415 morti. La pandemia appare quindi in Italia e nel mondo in piena fase ascendente, tranne la Cina che la ha già superata. Secondo la Fondazione GIMBE, organo preposto alla diffusione e applicazione delle migliori evidenze scientifiche per migliorare la salute delle persone e il servizio sanitario pubblico, nelle ultime 2 settimane il numero dei casi in Italia aumenta del 20-25% al giorno, raddoppiando ogni 4-5 giorni, ma in maniera non uniforme su tutto il territorio nazionale, permettendo di identificare 4 “contenitori” con dinamiche differenti: 1) Lombardia; 2) Emilia Romagna e Veneto; 3) Regioni confinanti; 4) tutte le altre Regioni. I 4 “contenitori” hanno un andamento della curva simile, ma ritardata di 4-5 giorni l’uno rispetto all’altro. L’obiettivo dei provvedimenti restrittivi in corso è cercare di evitare il picco nelle Regioni del Centro-Sud che, senza contenimento, inesorabilmente raggiungerebbero i tassi di incidenza di quelle del Nord. Tutti i Paesi del mondo si trovano in questo momento probabilmente in punti diversi di una stessa linea temporale. La recente impennata dei casi in Spagna, Francia, Germania, dimostra che stanno iniziando anche loro la fase vissuta dall’Italia, con un ritardo di 7-9 giorni. Il rischio è che la non uniformità degli interventi di contenimento dell’epidemia tra i vari Stati possa vanificare le misure draconiane messe in atto da alcuni paesi, in primis l’Italia, creando inevitabili “casi di rientro”. In questa linea temporale, la Cina, che è stata l’epicentro, ora è arrivata a un numero di nuovi casi praticamente di 0, ma non può considerarsi “al sicuro” finché il virus si diffonde a livello globale. Se esistesse un piano pandemico unico in Europa e nel mondo, sarebbe più probabile la vittoria sul virus. Soprattutto nei confronti del rischio della “seconda ondata”, l’anno successivo, che si osserva nelle pandemie influenzali, e colpisce le persone suscettibili che non si sono immunizzate nella prima ondata.

Perché l’elevata diffusione e letalità in Italia

I dati italiani sono sicuramente pesanti: l’Italia è il secondo Paese nel mondo dopo la Cina per numero totale di casi confermati e di decessi, ma la Cina ha 1,38 miliardi di abitanti e noi 60 milioni (Eurostat, 2018). L’aggiornamento del Gimbe del 16 marzo (che non include i dati della Puglia e della Prov. Aut. di Trento), riporta, su 27.980 casi: 1.851 (6,6%) pazienti in terapia intensiva; 11.025 (39,4%) ricoverati con sintomi; 10.197 (36,4%) in isolamento domiciliare; 2.749 (9,8%) dimessi guariti; 2.158 decessi (7,7%). Questa distribuzione di gravità della malattia appare molto più severa di quella cinese: infatti, lo studio condotto sulla coorte cinese e pubblicato su JAMA riportava, su 44.415 casi confermati, 81% lievi, 14% severi (ospedalizzati) e 5% critici (in terapia intensiva), con un tasso di letalità del 2,3%. Perché l’Italia ha questi tassi così elevati? Si sono prese in considerazione fondamentalmente quattro ipotesi.

L’età anziana della popolazione e le abitudini di vita.

L’Oms riporta che il Covid-19 colpisce tutte le età ma la mortalità aumenta nelle persone sopra i 65 anni e/o con altre patologie di base, precipitate dal virus, come malattie cardiovascolari, diabete, malattie respiratorie croniche, ipertensione, cancro. In Italia, nel 2019 l’indice di vecchiaia dice che ci sono 173,1 anziani ogni 100 giovani. Abbiamo una popolazione tra le più vecchie del mondo. La letalità complessiva in Italia risulta pertanto maggiore della Cina anche in virtù del fatto che l’età media della popolazione italiana è maggiore rispetto a quella cinese e in Italia c’è stato un maggior numero di malati con età superiore agli 80 anni. Comunque in Italia, anche stratificando i dati per fasce di età, la mortalità arriva al 17.5% per gli 80-90enni, superiore ai dati Oms (del 14,8% dagli 80 anni). Ciò è stato attribuito alle abitudini del nostro modello sociale e familiare, che vede una stretta condivisione degli spazi e della vita quotidiana degli anziani con le famiglie, laddove i giovani, asintomatici o pauci-sintomatici, si fanno da veicolo del virus per gli anziani di casa.

Fattori legati all’inquinamento in Val Padana: l’ipotesi ambientale.

Secondo l’ipotesi elaborata dai ricercatori dell’Università del Maryland, c’è un filo che lega le principali zone di diffusione epidemica del nuovo Coronavirus: la metropoli cinese Wuhan, i focolai lombardo-veneti italiani, la zona di Qom in Iran e altre aree del mondo dove si sono verificati o si stanno verificando i contagi (la sudcoreana Daegu, Tokyo, Seattle, Londra, Parigi, Madrid): analogie di latitudine (fascia compresa tra 30 e 50 gradi a Nord, cosiddetto clima subtropicale umido), temperature medie registrate (tra i 5 e gli 11 gradi centigradi, mentre sarebbero meno ospitali per il virus aree più fredde, come Russia e Canada, o più calde, come l’Africa), umidità (tra il 67 e l’88 per cento) e livelli di inquinamento. A proposito di quest’ultimo, uno studio della Società italiana di medicina ambientale ha evidenziato una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di Pm10 (50 microg/m3 di concentrazione media giornaliera) e il numero di casi di infezione da Covid-19 in Pianura padana, esattamente con gli intervalli previsti dall’incubazione del virus. Il Pm10 avrebbe, secondo la ricerca, esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia, in quanto il particolato atmosferico funge da efficace carrier per il trasporto dei virus, come dimostrato in altre epidemie (influenza, morbillo), oltre a inficiare la funzione dei macrofagi alveolari, cellule in prima linea nelle difese dei polmoni. A conferma dell’ipotesi, a Roma, la presenza di contagi era già manifesta negli stessi giorni delle regioni padane, senza però innescare un fenomeno così virulento, non essendosi registrati gli stessi tassi di inquinamento atmosferico.

La presenza di infetti asintomatici e contagianti sul territorio.

SARS-CoV-2 è un virus respiratorio che, come gli altri Coronavirus, si diffonde da una persona a un’altra attraverso contatto ravvicinato: saliva, goccioline del respiro eliminate attraverso tosse e starnuti, contatti diretti personali (come toccare o stringere la mano e portarla alle mucose), o con oggetti o superfici contaminati dal virus portandosi poi le mani (non lavate) su bocca, naso, occhi; meno significativa la via oro-fecale. La principale fonte di contagio sono le persone ammalate con evidenti sintomi, nelle quali la carica virale è verosimilmente più alta, ma le persone nella fase pre-sintomatica o con pochi sintomi aspecifici sono probabilmente quelle che diffondono maggiormente l’infezione, essendo misconosciute e quindi non isolate. In questo senso, in Italia il personale sanitario, soprattutto se non adeguatamente protetto per la diffusa carenza di dispositivi di protezione individuali (DPI), potrebbe avere un ruolo cruciale nella disseminazione dell’infezione. Basti pensare al “paziente 1”, il 38enne di Castiglione d’Adda, in provincia di Lodi, che, visitato all’ospedale di Codogno, dove ha praticato due accessi, non essendo stato subito diagnosticato, e quindi trattato senza le precauzioni del caso, si è trasformato in uno spaventoso amplificatore del contagio tra sanitari e pazienti. I DPI per le vie respiratorie sono studiati per evitare o limitare l’ingresso nelle vie aeree di agenti potenzialmente pericolosi (fumi, polveri, fibre o microrganismi); comprendono maschere, occhiali, guanti e camici impermeabili. Le maschere possono avere una duplice finalità: quelle chirurgiche servono a proteggere chi si ha di fronte dai propri germi, quelle mediche, maschere Facciali Filtranti la Polvere (FFP), classificate in FFP1, FFP2 e FFP3, FFP4 in base al livello crescente di protezione, servono a proteggere gli operatori dai germi del paziente infetto (per il Covid-19 serve almeno FFP2). La mascherina chirurgica dovrebbe essere indossata in ogni visita, sia dal sanitario che dal paziente, come protezione comunitaria, mentre nelle situazioni a rischio di paziente Covid-19 positivo il medico deve proteggersi con la maschera filtrante. Poiché le maschere FPP non filtrano l’espirazione, e quindi non proteggono dal contagio gli altri se il medico è positivo, sarebbe consigliabile applicare una mascherina chirurgica al di fuori della valvola delle FPP. La validità di protezione di questi presidi non è garantita oltre le 4 ore o se si danneggiano. Purtroppo, data la generale carenza di DPI sul territorio nazionale, i sanitari italiani sono stati esposti a un elevato numero di pazienti potenzialmente infetti e contagiosi, contagiandosi loro stessi, e diventando a loro volta volano di infezione per familiari, contatti e altri pazienti. Inoltre, nel Decreto-Legge n. 14/2020 del 9 marzo viene dichiarata all’art.7 non applicabile la misura della quarantena con sorveglianza attiva agli operatori sanitari esposti a pazienti Covid-19, con obbligo di continuità di lavoro (anche se potenzialmente infetti!) e sospensione solo per casi sintomatici e positivi. Il medico venuto a contatto con un caso Covid-19 deve ricorrere alle disposizioni dettate dal medico competente, il contributo del quale è fondamentale per consentire l’adozione delle misure che ritiene più adeguate alla singola situazione, rendendole così vincolanti per il datore di lavoro. Secondo l’Istituto superiore di sanità (Iss), in Italia, gli operatori sanitari contagiati rappresentano il 10% degli infetti totali, ma poiché le manifestazioni cliniche sono presenti in una minoranza degli infettati e non a tutti viene eseguito il tampone, ma solo ai più gravi (es. se presente dispnea), è probabile che il numero reale degli infettati tra il personale sanitario sia molto maggiore: medici e infermieri di cui non si conosce la positività e che continuano a lavorare e potenzialmente a infettare. Gli ospedali rappresentano pertanto zone ad alta prevalenza di infettati in cui nessun affetto è isolato, per cui può crearsi una comunità ad alta densità virale, che è il tipo di situazione che favorisce anche la gravità del decorso della malattia, come è accaduto al mercato ittico di Wuhan in Cina o all’ospedale di Codogno in Lombardia. D’altra parte, si ritiene che mettere in quarantena tutti gli operatori sanitari dopo i contatti a rischio significherebbe decimare l’assistenza sanitaria nel Paese in modo incolmabile, togliendo dal lavoro medici che con utilizzo appropriato di DPI potrebbero continuare preziosamente a lavorare.

La strategia di eseguire i tamponi solo ai casi più gravi.

La percentuale di mortalità in Italia può risultare sovrastimata per la strategia adottata di eseguire il tampone solo a chi ha sintomi importanti, selezionando così solo la popolazione più grave dei colpiti, che è la punta dell’icerberg dell’infezione, ed è più a rischio di morte. Il tasso diminuirebbe se al denominatore ci fosse il numero reale di tutti i contagiati, sintomatici, paucisintomatici e asintomatici, anche se il numero di decessi, in termini di valore assoluto, resta lo stesso. In questo senso diventano poco confrontabili anche i dati tra le varie Regioni italiane, come rileva l’Associazione italiana epidemiologi (Aie), data la disomogeneità nel ricorso ai tamponi, esempio in Veneto sono stati fatti 7,1 tamponi ogni 1000 abitanti, in Lombardia 4,3, ciò comporta che la stima di letalità risulta molto più alta in Lombardia (10% vs < 3%). Il rapporto morti/casi di contagio potrebbe pertanto risultare il più alto del mondo in Lombardia perché gli unici pazienti a cui viene fatto il tampone e quindi la diagnosi sono quelli gravi. Secondo il GIMBE, in realtà in Italia ci sono almeno 100mila casi di contagiati dal Covid-19, di cui 70mila non identificati: prendendo in considerazione questi casi, la casistica italiana si riallinea a quella della coorte cinese.

*Specialista in pediatria