Vangelo in Salute, la Parola che cura: la pecorella smarrita

Vangelo in Salute, la Parola che cura: la pecorella smarrita

14 Settembre 2025 Off Di La Redazione

 Dio non si stanca mai di cercarci. Ma il vero male è credere di non aver bisogno di essere salvati.

Il Vangelo della XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Lc 15,1-32) è tra i più conosciuti e più amati di tutto il Nuovo Testamento. Gesù racconta tre parabole – la pecora smarrita, la moneta perduta e il figlio prodigo – che hanno tutte lo stesso filo conduttore: Dio è un Padre che non si rassegna a perdere nessuno.

Il contesto in cui Gesù parla è fondamentale: i farisei e gli scribi mormorano perché Egli accoglie i peccatori e mangia con loro. Qui nasce la malattia spirituale che il Vangelo vuole curare: la presunzione di chi pensa di non avere bisogno della misericordia, la superbia di chi giudica gli altri come “sbagliati” e se stesso come “giusto”. È il cuore indurito che non sa più commuoversi.

Gesù descrive un pastore che lascia novantanove pecore al sicuro per andare a cercarne una sola smarrita. Dal punto di vista umano sembra illogico: perdere di vista novantanove per una? Eppure, agli occhi di Dio nessuno è insignificante. Ogni persona è unica, e quando si perde, è una ferita aperta nel cuore del Padre.

La cura che ci offre questa parabola è preziosa: ci guarisce dal virus dell’indifferenza. In una società che considera “numeri” e “percentuali”, Dio guarda ai volti, alle storie, ai nomi. Ognuno vale tutto. La salute dell’anima passa dal sentirci cercati, amati, custoditi.

La seconda parabola parla di una donna che accende la lampada e spazza la casa finché non ritrova la moneta perduta. Un gesto minuzioso, paziente, quasi ossessivo. Anche qui la logica è chiara: per Dio nulla è insignificante. Anche la più piccola moneta smarrita conta.

La malattia che Gesù mette in luce è la rassegnazione: credere che chi si perde sia perduto per sempre. Ma la Parola ci guarisce con una verità nuova: Dio non si arrende. La sua misericordia non si stanca, la sua ricerca non finisce mai. E questo diventa un invito per noi: quante volte abbandoniamo le persone “perse” – in famiglia, nella comunità, nella società – perché ci sembrano casi impossibili? Dio invece ci insegna a non smettere mai di cercare.

La terza parabola, la più lunga e commovente, racconta il dramma del figlio che se ne va di casa, brucia l’eredità e si ritrova a pascolare porci, affamato e umiliato. Ma racconta soprattutto il cuore del padre, che non smette di attendere, di scrutare l’orizzonte, di corrergli incontro quando lo vede tornare. È il Vangelo della misericordia allo stato puro: Dio non aspetta vendetta, non pretende scuse perfette, non umilia chi ritorna. Abbraccia, veste, rialza, restituisce dignità.

Ma c’è anche l’altro figlio, quello che non se n’è mai andato, e che reagisce con rabbia e invidia alla festa del padre. Anche lui è malato: della superbia del giusto che non sa gioire per il bene altrui. E forse è la malattia più grave: sentirsi sani quando in realtà si ha il cuore chiuso.

La cura che Gesù ci offre qui è decisiva: non basta “stare a casa” esteriormente, bisogna avere il cuore che sa amare. Il figlio maggiore non ha sbagliato nei gesti, ma si è ammalato dentro, incapace di perdono e di festa.

In questa Domenica di Tuttosanità, la Parola di Dio ci mostra che la vera salute dell’anima non consiste nell’essere perfetti, ma nel lasciarsi guarire da un amore che non abbandona. Siamo tutti, a volte, pecora smarrita, moneta perduta, figlio lontano. E siamo tutti, a volte, fratello maggiore che giudica e si chiude.

Il Vangelo ci invita a riconoscerci bisognosi di misericordia. Perché la vera malattia spirituale non è il peccato, ma la convinzione di non aver bisogno di essere salvati. Il peccato può diventare ferita guarita, occasione di ritorno, esperienza di amore. L’autosufficienza, invece, ci chiude in una solitudine sterile.

Queste parabole non parlano solo ai singoli, ma alla comunità cristiana. La Chiesa è sana solo se assomiglia a quel pastore che cerca, a quella donna che non si arrende, a quel padre che abbraccia. Una Chiesa che giudica, che esclude, che si chiude, si ammala di fariseismo. Una Chiesa che cerca, che rialza, che fa festa per ogni ritorno, diventa medicina per il mondo.

E qui c’è la provocazione: siamo davvero una Chiesa che si rallegra per chi torna, o una comunità che preferisce custodire i “giusti” e guardare con sospetto i peccatori? Siamo una casa accogliente, o un club esclusivo per pochi praticanti?

Per riflettere 

Il Vangelo di oggi ci dice che ogni volta che uno solo si converte, in cielo c’è festa. La gioia di Dio è la nostra guarigione. Non esiste peccato troppo grande per la misericordia, non esiste smarrimento troppo lungo per l’amore del Padre.

E allora la domanda, personale e comunitaria, è urgente: voglio davvero lasciarmi trovare da Dio, oppure continuo a nascondermi dietro la maschera del giusto? So gioire del ritorno degli altri, o preferisco coltivare risentimento e confronti?

La vera salute spirituale non sta nel non cadere mai, ma nel lasciarsi sempre rialzare. Non sta nel non sbagliare, ma nel farsi abbracciare. Non sta nel giudicare, ma nel condividere la festa.

Il Padre ci attende: non con un rimprovero, ma con un banchetto. Il Vangelo ci offre oggi la cura più bella: scoprire che la misericordia non è solo un atto di Dio, ma la medicina che può guarire anche il nostro cuore malato di durezza.