
Vangelo in Salute, la Parola che cura: l’Ascensione
1 Giugno 2025Ascende al cielo… e noi restiamo a terra. Testimoni o spettatori? Il Vangelo dell’Ascensione ci lascia una missione, non una nostalgia.
C’è un paradosso nel Vangelo dell’Ascensione che ci provoca ogni anno: Gesù scompare dalla vista, e i discepoli esultano. Non piangono. Non si disperano. Non rimangono nel vuoto, immobili a guardare il cielo. Tornano a Gerusalemme “con grande gioia”. Sì, gioia. È la parola che chiude il Vangelo di Luca, nel racconto di un’assenza che si trasforma in presenza più profonda, più interiore, più missionaria.
Eppure, ammettiamolo: l’Ascensione è una solennità ambigua per molti fedeli. Fa parte del Credo, rientra nella cronologia della salvezza, ma spesso resta incompresa.
Gesù “sale al cielo”… e noi restiamo a terra, con il rischio di leggere questa salita come un addio, una perdita, una distanza.
Ma è proprio qui che il Vangelo diventa cura, medicina spirituale per la nostra mentalità malata di attesa passiva o di spiritualità evasiva.
L’Ascensione è una guarigione dal nostro bisogno di trattenere Dio solo per noi.
Perché finché Gesù restava fisicamente presente, i discepoli rischiavano di legarlo a un luogo, a una geografia, a un tempo. Con l’Ascensione, invece, il Cristo si libera da ogni confine: non è più il Maestro “qui accanto”, ma il Signore “ovunque presente”. Non è meno vicino. È più intimo.
E questa è una rivoluzione. È la fine di una fede localizzata e l’inizio di una fede incarnata. È la medicina per chi soffre di nostalgia spirituale e pensa che il meglio fosse “quando c’era Gesù”. È la guarigione per chi vorrebbe Dio solo come rifugio personale, non come presenza universale.
Gesù ascende non per allontanarsi, ma per aprirci alla responsabilità.
Le sue ultime parole, prima di salire, sono una consegna: «Di questo voi siete testimoni». È un verbo pesante, affilato, impossibile da addolcire. Testimone è chi ha visto e ora racconta. Ma nel linguaggio del Vangelo è anche qualcosa di più: è chi continua, con la propria vita, ciò che Cristo ha iniziato.
Essere testimoni significa mettersi in gioco. Diventare voce di quella Parola che cura. Non semplici distributori di dottrina, ma portatori viventi di una guarigione che parte dal cuore e arriva al mondo.
E allora viene la domanda cruciale: siamo davvero testimoni… o soltanto spettatori?
Viviamo la fede come una missione o come un consumo? Guardiamo l’Ascensione come un mistero di gloria o come una puntata finale da archiviare nel calendario liturgico?
Questo Vangelo ci chiede di uscire dalla passività. Di passare dalla contemplazione alla testimonianza. Di accettare che Gesù non sia più fisicamente tra noi, perché ha scelto — scandalosamente — di abitare in noi. E questo fa paura. Perché significa diventare noi stessi il corpo vivente del Risorto nel mondo.
In questo senso, la “Domenica di Tuttosanità” ci offre un’occasione preziosa. Perché ci obbliga a chiederci: la nostra fede è in salute? Il nostro cristianesimo è capace di generare vita, fiducia, pace? O è un insieme di gesti rituali che cercano solo di sopravvivere al vuoto?
Un cristiano in salute non è quello che ha tutto in ordine, ma quello che è abitato. Che sa di essere fragile, ma non solo. Che sente dentro una Presenza più grande delle sue paure, più forte delle sue incoerenze.
Il Vangelo dell’Ascensione ci ricorda che la guarigione non consiste nel “sentire Dio accanto”, ma nel riconoscerlo dentro.
Nel sapere che, anche se non lo vediamo, ci ha affidato un compito: essere voce, mani, cuore, parola del Risorto per chi ancora non crede, per chi soffre, per chi cerca.
Ed è proprio in questo tempo nuovo della Chiesa — quello aperto da Papa Leone XIV — che queste parole si fanno ancora più urgenti.
Eletto l’8 maggio, a pochi giorni dalla Domenica dell’Ascensione, il nuovo Pontefice ha già messo al centro del suo messaggio la parola “pace”: «La pace sia con tutti voi, disarmata e disarmante».
Una pace che non è dichiarazione, ma cammino. Non è decorazione, ma cura.
In questa luce, l’Ascensione non è più il Vangelo della distanza, ma della fiducia. Gesù affida la sua opera a una comunità umana, fragile, ma abitata. A una Chiesa che può cadere, ma che non è mai abbandonata.
Papa Leone XIV, con le sue prime parole, ci ha ricordato che la fede non è potere, ma servizio. Non è imposizione, ma cura. È un’arte lenta, quotidiana, fatta di ascolto, di gesti, di presenza silenziosa.
E tutto questo comincia da un comando: «Voi siete testimoni».
Non potete sottrarvi. Non potete affidarvi solo a chi ha voce in capitolo. La testimonianza è il battesimo che parla.
È il Vangelo che cammina sulle nostre gambe, oggi.
Allora sì, la Parola è medicina. È Vangelo in salute.
Non perché ci evita le fatiche, ma perché ci offre una cura stabile: la certezza che, anche quando non lo vediamo, il Signore è all’opera. E ci chiede di esserlo con Lui.
L’Ascensione non ci lascia soli. Ci lascia vivi. E ci lascia responsabili.
Non un vuoto da contemplare, ma un pieno da trasmettere. Non un addio da rimpiangere, ma un invio da vivere.
Perché la vera salute della fede non è trattenere Dio. È lasciarsi abitare da Lui, per diventare segno della Sua presenza… in ogni cielo, e su ogni terra.