
La maestra di Portici
22 Maggio 2025A leggerne il nome – Domenica Russo – ho sentito aria di famiglia. No, non quella anagrafica e nemmeno quella della categoria professionale. Ma quella emotiva fatta di comuni sensazioni, di esistenze non prossime nel tempo eppure in qualche modo consentanee. Esistenze fatte di decisioni non sempre sognate, di scelte necessarie, che hanno determinato scoperte ma anche rinunce. Vite di occasioni dischiuse, ma anche di improvvise nostalgie, di estraneità talora persino felici, ma anche di solitudini, di pregiudizi ricevuti e talvolta restituiti. Come non pensare alla comune ansiosa attesa di bollettini e graduatorie, con il pericolo suppletivo, nel caso di cognomi diffusi, come il suo, come il mio, di improvvide omonimie.
La famiglia, che intendo è quella immensa, e mai esaurita delle lavoratrici e dei lavoratori, lontani da casa, “fuori sede”, come si dice nella sterile neutralità del burocratese. Quella della scuola del sud, che, in tutte le sue componenti, alimenta gli istituti delle regioni del “nostro” nord. In quel nord che è stato anche la mia zona stanziale per qualche anno, ai miei inizi. E singolarmente negli stessi luoghi. A raggiungerli da Milano attraversavo proprio quei nomi: Saronno, Lomazzo, Grandate, Camerlata nelle Ferrovie Nord, come ancora si chiamavano, in carrozze fatiscenti con lo scaldino, in inverno, sotto i sedili in un metallo che si arroventava.
Ho pensato che i “suoi” bambini potevano essere i figli o i nipoti, chissà, di quei “miei” alunni. Magari non esattamente quelli ma di quella generazione o a essa prossima. I suoi bambini…i miei alunni. Sì, è così. L’unica forma concessa al possessivo come appropriata per esseri umani è quella che ha il suo “campo” di appartenenza nella scuola. Dove il possesso è l’espressione più sintetica per esprimere la relazione assoluta di un dare e ricevere che si equivalgono. Anzi, che è del tutto empio ridurre ad una misurazione. Come se si potesse pesare l’anima o sentirne anche solo l’alito o l’ombra di un profumo.
E quante volte anche io ho accompagnato alunni in pullman! Centinaia, tra viaggi d’istruzione, uscite di un giorno, mattinate a teatro…Sempre davanti, come a controllare la strada, a stabilire un contatto con l’autista, a predisporlo alla vivacità dei ragazzi, alle loro “cassette” indigeste agli adulti. Lo strapuntino era il mio posto. L’altro, nei lunghi trasferimenti, era sui sedili in fondo. Ma i miei alunni era già grandi. Alunni di quinta, più di un maggiorenne. Persone in gran parte formate, ma che pure aspettavano, taluni chiedevano, un’ultima impronta, un segnale di fiducia, una rassicurazione…
Domenica Russo non è, per me, una figlia o una sorella e nemmeno semplicemente una collega. É quella parte di noi, di noi che siamo tornati; è quel qualcosa che, come in tutti i ritorni, abbiamo lasciato là. Qualcosa in più della gioventù.
No, non si può pesare l’anima e nemmeno sentirne anche solo l’alito o l’ombra di un profumo. Solo il dolore che incrina senza spezzarla del tutto. Il dolore che dura il tempo del dolore.
Sua figlia troverà sicuramente una maestra e nella maestra una madre. Come sua madre. Che è stata maestra, madre. E per tanti bambini. Che ha fatto della sua vita, il suo lavoro e del suo lavoro il proprio destino.