Alessandro Soureal, la vela non è solo uno sport ma una disciplina

Alessandro Soureal, la vela non è solo uno sport ma una disciplina

16 Novembre 2025 Off Di Marco Magliulo & Pasquale Maria Sansone

È manager nel settore delle telecomunicazioni e della cybersecurity, Alessandro Soureal con una carriera costruita tra innovazione, strategia di prodotto e progetti europei dedicati alla sicurezza quantistica. Attualmente Product Manager e membro del progetto europeo EQUO nell’ambito dell’iniziativa EuroQCI, collabora alla definizione degli standard internazionali per la sicurezza delle reti.

Lei naviga tra le insidie della rete ed i marosi quando veleggiando incontra condizioni avverse. Quale delle due problematiche le risulta più complicata?

Direi che, tra le due difficoltà, sono i marosi a rappresentare per me la prova più impegnativa. Le insidie della rete, quella digitale costellata di vulnerabilità sottili con minacce sofisticate e mutamenti repentini, pur nella loro complessità, costituiscono un ambito in cui posso esercitare una competenza strutturata: mi è sufficiente ricondurre il problema a una visione d’insieme, interpretare le dinamiche che si celano dietro i comportamenti anomali e tradurre tali intuizioni nella progettazione di soluzioni di sicurezza coerenti, robuste e capaci di prevenire o mitigare gli scenari più insidiosi.

Quando però il mare si agita e i marosi si sollevano con la loro forza improvvisa, la sfida assume tutt’altra natura. Tutto diventa più instabile, più impellente, come se la realtà stessa imponesse un ritmo esterno che non lascia spazio a esitazioni. In quei frangenti devo mantenere la mente lucida mentre ogni movimento richiede equilibrio, tempestività e un sangue freddo che sfiora l’istintivo. La barca reagisce a impulsi imprevedibili, il vento muta direzione senza preavviso, e il tempo di riflessione si riduce all’essenziale.

È proprio in quel tumulto, dove gli elementi sembrano voler misurare non solo la mia capacità tecnica ma anche la mia tenuta interiore, che si manifesta la difficoltà più autentica. Così, pur destreggiandomi quotidianamente tra i molteplici inganni della rete informatica, è l’incontro con i marosi con la loro energia indomita e imprevedibile a mettermi davvero alla prova.

Oggi si parla sempre con maggiore insistenza del ricorso all’intelligenza artificiale in tanti campi d’azione compresa la scienza medica. Non è, come si è visto in qualche film di fantascienza, che saranno le macchine a governare gli umani in un mondo rigidamente inquadrato?

L’idea che l’intelligenza artificiale possa un giorno trasformarsi in una sorta di entità dominante, capace di governare l’umanità come in certi scenari di fantascienza, è suggestiva nella narrativa, ma profondamente fuorviante nella realtà. Nel campo della cybersecurity, molto più che in altri ambiti, questa distinzione diventa particolarmente evidente.

Le soluzioni basate sull’IA che adottiamo per proteggere le infrastrutture digitali non sono organismi autonomi dotati di volontà propria. Sono piuttosto strumenti estremamente sofisticati, capaci di analizzare volumi sterminati di dati, riconoscere anomalie, neutralizzare minacce emergenti e anticipare scenari che sarebbero troppo rapidi e complessi per l’occhio umano. In questo senso, l’IA si comporta come un navigatore esperto che, scrutando il cielo e la superficie dell’acqua, individua variazioni impercettibili che preannunciano un cambiamento del vento o un’onda anomala.

Ma, proprio come per la vela, il potere decisionale non appartiene agli strumenti.

Il GPS, il radar o altri dispositivi di bordo possono avvertire il timoniere, suggerire una rotta più sicura, indicare la presenza di correnti insidiose ma tuttavia, nessuno di essi prende il comando dell’imbarcazione. È il marinaio a interpretare quelle informazioni, a valutarle nel contesto più ampio del mare, a scegliere se virare, ridurre vela o resistere al vento. Gli strumenti ampliano la percezione, non la sostituiscono.

Così accade anche nell’ambito della sicurezza digitale: l’IA segnala anomalie, anticipa attacchi, propone pattern di difesa, ma rimane un’estensione delle capacità del professionista, non un soggetto indipendente. La vera responsabilità etica, tecnica e strategica resta in capo all’essere umano che la governa, la configura, la limita e ne interpreta i risultati.

L’unico rischio concreto non deriva da un’ipotetica “ribellione” delle macchine, bensì da un uso superficiale, inconsapevole o eccessivamente delegante dei loro risultati.

È l’uomo, non l’IA, a poter perdere il controllo se rinuncia alla propria funzione di timoniere. Non volendo scomodare eccessivamente Schopenhauer, il quale però ci ricorda che l’uomo pensa pensando mentre le macchine, in questo specifico l’AI, non pensa bensì calcola. Il primo coinvolge la profondità dello spirito, la seconda si limita a un’operazione tecnica.

Per questo motivo, più che temere un dominio delle macchine, la vera sfida è mantenere saldo il rapporto tra comandante e strumentazione e lasciare che l’IA illumini la rotta, ma non che la tracci da sola.

Preferisce veleggiare in solitaria o in compagnia? Insomma il fruscio quasi impercettibile delle onde che si infrangono intorno alla barca o, di tanto in tanto, condividere le emozioni con altri appassionati/e?

Prediligo la navigazione in solitaria, dove il ritmo dell’imbarcazione sul mare apre una conversazione silenziosa con me stesso, e il sussurro delle onde diventa una presenza discreta ma costante, quasi un interlocutore che accompagna i miei pensieri. In questo isolamento volutamente scelto, ogni emozione prende forma senza bisogno di parole, e la mente si distende, esplorando territori interiori che solo il silenzio e l’infinito possono rivelare.

D’altro canto, non posso negare il fascino di condividere la navigazione con Aurora, mia figlia di quattro anni. In mare, ogni gesto diventa un piccolo rituale di scoperta: le mostro come il vento accarezza le vele e la invito a seguire il gioco delle correnti tra le onde. Ci sono momenti in cui contare i gabbiani che ci accompagnano o inventare storie sul colore del cielo, trasforma la navigazione in un’esperienza condivisa di stupore e complicità. In questi attimi, il mare diventa teatro di fiducia reciproca e di legame profondo, dove ogni emozione si amplifica attraverso lo sguardo e la meraviglia di un’altra persona.

Al contempo, la solitudine in barca conserva la sua ineffabile attrattiva. Cullato dal ritmo delle onde, si entra in un dialogo silenzioso con sè stessi e con l’infinito. È allora che la mente si apre, osservando i mutamenti del cielo, l’andirivieni delle correnti, e percependo la vastità del mare come specchio del proprio mondo interiore. Non si tratta di opporre solitudine e compagnia, bensì di cogliere le sfumature di entrambe le esperienze: la presenza di Aurora rende più dolce e ricca la meraviglia, mentre il silenzio del mare permette di ascoltare la profondità dei propri pensieri.

La vela richiede una stabilità mentale ed una forma fisica perfetta. Sono due ingredienti ineliminabili per affrontare il mare e le sue insidie, lontani da leggerezze che possono costare care.

La vela, per chi la pratica con attenzione, non è solo uno sport bensì è una disciplina che richiede una stabilità mentale capace di leggere il mare, anticipare le onde e reagire con lucidità a ogni imprevisto, e una forma fisica pronta a sostenere le continue sollecitazioni della vita di bordo. Sul mare, ogni distrazione può avere conseguenze immediate e la leggerezza, qui, è un lusso che non ci si può permettere.

I suoi progetti futuri mirano più alla vela o alla rete cibernetica?

Il mio desiderio di dedicarmi alla vela è profondo e costante ma tuttavia, la realtà quotidiana impone vincoli significativi che rendono difficile ritagliarsi lo spazio necessario per vivere la vela con la continuità e l’intensità che meriterebbe.

Per questo, i miei progetti futuri oscillano tra due dimensioni: quella professionale, che richiede dedizione, attenzione e costruzione costante, e quella del mare, che invita a una sospensione temporanea dalla rigidità della vita quotidiana, a un dialogo diretto con la natura e con se stessi.

Le minacce terroristiche viaggiano anche in rete e le stesse guerre sono combattute con il supporto della tecnologia informatica. Lei è un esperto, le difese adottate riescono ad arginare adeguatamente gli attacchi cibernetici?

Le minacce contemporanee non conoscono più confini fisici e si estendono con la stessa rapidità del digitale. II terrorismo e i conflitti armati si avvalgono ormai in modo crescente della rete e delle tecnologie informatiche, sia per la raccolta di informazioni che per la diffusione di propaganda, attacchi mirati o sabotaggi infrastrutturali. In questo contesto, la cybersecurity assume un ruolo strategico e imprescindibile, non più marginale rispetto alla sicurezza nazionale.

Le difese adottate oggi sono frutto di un approccio multilivello e in costante evoluzione. Dalla protezione dei sistemi critici con soluzioni di rilevamento avanzato, all’analisi comportamentale delle minacce, fino alla formazione continua degli operatori. Tuttavia, occorre essere chiari: non esiste una sicurezza assoluta.

L’efficacia delle contromisure è proporzionale alla loro capacità di adattamento e alla rapidità con cui possono identificare, isolare e neutralizzare comportamenti anomali o sofisticati attacchi zero-day. La cyber difesa è quindi un processo dinamico e predittivo, che richiede non solo tecnologia avanzata, ma anche strategie integrate di intelligence, collaborazione internazionale e aggiornamento continuo delle competenze.

In sintesi, le difese attuali possono arginare una larga parte degli attacchi e ridurre significativamente l’impatto operativo e strategico di incidenti cibernetici. Ma il vero vantaggio competitivo non risiede esclusivamente negli strumenti, quanto nella capacità di anticipare le mosse degli aggressori, di comprendere le dinamiche del contesto e di integrare la tecnologia con una governance della sicurezza robusta, resiliente e orientata al futuro.