Alessio Palumbo, accettare i propri limiti: questo il vero atto di forza

Alessio Palumbo, accettare i propri limiti: questo il vero atto di forza

8 Agosto 2025 Off Di Marco Magliulo & Pasquale Maria Sansone

 

 

Teatro, Teatro Sociale, Cinema e Scrittura. Alessio Palumbo è uomo di una sensibilità profonda, una promessa del mondo artistico napoletano, pronto a rivestire a pieno titolo ruoli che lo proiettano in scenari artistici nazionali ed internazionali.

Attore, regista, scrittore di teatro, qual è l’anima vera di Alessio Palumbo?

Per me non esiste una parte sola. La mia anima si esprime al massimo quando queste tre dimensioni, scrittura, regia e recitazione, si fondono. Quando creo una scena da zero, la arricchisco di parole e gesti, e poi la porto in scena, sento che sto tirando fuori davvero chi sono, con autenticità. È un’esperienza totalizzante, che coinvolge corpo, mente e cuore. Ed anche quando mi trovo ad interpretare testi scritti e diretti da altri cerco sempre di far venire fuori in qualche modo le altre parti, mettendole a servizio della drammaturgia e dell’interpretazione, per un risultato più completo.

Nel suo percorso formativo e di crescita artistica ha avuto modo di confrontarsi con personaggi del calibro di Pupi Avati e Luciano Melchionna. Come e quale è stata la sua esperienza con loro?

L’esperienza con questi due enormi maestri della recitazione ha avuto su di me un impatto molto forte, un impatto profondo sull’uomo, prima ancora che artistico. Nelle loro differenze di approccio, entrambi ti portano a guardarti dentro, a spogliarti emotivamente. Ti aiutano a superare le difese che tutti, in un modo o nell’altro, ci costruiamo. Ed è lì che succede qualcosa di terapeutico: vieni a contatto con la parte più vera di te stesso. E quando succede, il lavoro dell’attore diventa anche un percorso di crescita personale.

Fra i personaggi che lei ha portato in scena ce n’è uno o magari più di uno al quale si sente particolarmente legato anche perché semmai rispecchia il suo modo di sentire?

Sì, Cesare Pavese, nello spettacolo “Almeno potercene andare – Il dolore nudo di Cesare Pavese” diretto da Antonio Mocciola. Quel ruolo mi ha permesso di entrare in contatto con una parte di me che spesso cerchiamo di nascondere: la fragilità. Pavese non riusciva a stare al passo con un mondo che correva troppo, che lo voleva sempre pronto ad affrontare una sfida per affermare se stesso, e questo lo rende estremamente attuale. Oggi ci sentiamo tutti un po’ obbligati a essere forti, sempre “sul pezzo”. Ma riconoscere i propri limiti, accettarli e mostrarli è un atto di forza e consapevolezza importantissimo, ed è forse il pregio più grande che può avere un essere umano in questo periodo storico.

Nel suo percorso artistico c’è anche l’esperienza della recitazione per così dire senza veli. Cosa cambia anche nell’approccio, quando ci si presenta davanti al pubblico privo degli abiti di scena?

Esporsi fisicamente sul palco è molto più di un semplice gesto teatrale: è un’esperienza che ti obbliga a essere vero, senza maschere. Senza costume, resta solo il corpo, e con lui tutta la tua vulnerabilità. È un momento di forte connessione con sé stessi e con il pubblico. Ti mette a nudo dentro, prima ancora che fuori. È come dire: “Sono questo, senza difese”. È un atto di coraggio, ma anche di libertà.