Stefania Napolitano ed il suo lockdown

Stefania Napolitano ed il suo lockdown

9 Agosto 2020 0 Di Anna Mozzi e Pasquale Maria Sansone

Psicoterapeuta di formazione lacaniana, dottore di ricerca in studi di genere e cultore della materia presso il dipartimento di psicologia dell’Università “Luigi Vanvitelli”.

 

Il Vissuto esperenziale di angoscia per la pandemia da Covid-19 ed il lungo lockdown ha sconvolto e perturbato, in modo devastante, la vita di molti italiani.

Le recessione economica, il distanziamento sociale obbligato, rendono molto complessa la ripresa di una vita normale.

Ne parliamo con Stefania Napolitano, psicoterapeuta di formazione lacaniana, dottore di ricerca in studi di genere e cultore della materia presso il dipartimento di psicologia dell’Università “Luigi Vanvitelli”, dove insegna il professor associato Riccardo Galiani, psicoanalista ordinario della Società psicoanalitica italiana e dell’International Psychoanalythical Association. È autrice di diversi articoli e di vari volumi, di cui è anche Co-curatrice. È curatrice insieme con il professor Riccardo Galiani del libro: La Gelosia, Profili di un affetto fondamentale, edito da alpes.

 

Considerato che il libro è un bene essenziale come lo divulga Stefania Napolitano? Qual è il suo vissuto di giovane psicoterapeuta durante la fase di lockdown?

Il “libro” è indicativo nella sua generalità del sapere, del ricorso a un patrimonio di sapere, e il sapere è il primo strumento di cui disponiamo, sia a livello individuale che collettivo, per fronteggiare l’irruzione di un elemento ignoto – il virus e le sue conseguenze, in questo caso. Leggere fornisce le coordinate indispensabili per poter decifrare, almeno in parte, un nuovo fenomeno e dunque per non farsene sopraffare. E infatti, andando alla questione della mia esperienza personale durante il lockdown, ho letto molto, e mi ha aiutato molto. Anche sul versante più propriamente professionale, quello della psicoterapia, nel mio caso una psicoterapia orientata in senso psicoanalitico, c’è voluto uno sforzo di pensiero – quindi di “lettura”, decifrazione- per approcciare una modalità nuova di sostenere i colloqui, senza la cornice del “setting” terapeutico. Ho scelto di sostenere colloqui telefonici, escludendo la componente dell’immagine (troppo densa di elementi proiettivi), e devo dire che è stata una esperienza interessante; non mi sembra che la relazione terapeutica ne abbia troppo sofferto.

Le barriere del virus, le distanze, sono la negazione dell’alterità, dell’etica della relazione e, pertanto, qual è la lezione sociale?

Domanda fondamentale e complessa, mi limito a una brevissima riflessione. Il lockdown ha fatto emergere prepotentemente quello che Freud chiamava il “disagio della civiltà”, ovvero lo scarto tra le esigenze individuali e quelle della comunità. Come singoli, abbiamo sofferto delle privazioni -libertà, relazioni ecc.- per preservare la salute di tutti, la “comunità” degli esseri umani. Sacrificio necessario ma pur sempre sacrificio. Forse l’occasione, una delle lezioni sociali che possiamo trarre, è quella di riaffermare l’inevitabilità di questo scarto tra il singolo e la collettività e non dimenticare appunto l’alterità, ovvero la irriducibilità di ciascuno a un generico “tutti”, che rimane il cuore della pluralità democratica. Penso tra le altre cose alle esigenze particolari dei soggetti disabili, dei pazienti psichiatrici, delle vittime di violenza domestica, degli anziani e delle persone più esposte alla solitudine, messe a dura prova dal lockdown.

La convivenza forzata e prolungata ha esacerbato le conflittualità nei contesti familiari e quali danni ha arrecato in particolare, alle donne?

Il fenomeno della violenza sulle donne nel contesto familiare è sempre stato, come sappiamo, in buona parte “sommerso”, soltanto una piccola percentuale delle donne arriva a rivolgersi ai centri antiviolenza. Naturalmente il lockdown ha esacerbato questa situazione, non permettendo alle donne la mobilità e la privacy necessarie per chiedere aiuto. La violenza è però “sommersa” anche in un altro senso, cioè non sempre è facilmente percepibile quando non si tratta di violenza fisica ma di una dinamica del rapporto tra i sessi, in particolare nella coppia, improntata a un sistema di rappresentazioni che possiamo definire ancora intriso di “patriarcato”. Il tema del testo curato da Riccardo Galiani e da me, la gelosia, contempla anche questa riflessione evidenziando una differenza tra la gelosia maschile e quella femminile, dove la prima risente di una immagine distorta della virilità per cui l’infedeltà, vera o presunta, della partner, può essere vissuta come una devirilizzazione, con le tragiche conseguenze che purtroppo la cronaca ci ricorda quotidianamente, fino al femminicidio. Ciò significa che occorre ripensare non soltanto la posizione femminile – su questo siamo al lavoro da decenni, con i movimenti femministi- ma anche e forse soprattutto quella maschile, insomma pensare, immaginare e diffondere un maschile al di là del patriarcato. Esiste, può esistere, e certamente giova anche agli uomini.

Qual è il mondo di domani, dove vige una sovranità digitale, che sacralizza l’economia e sancisce la solitudine?

Mi limito alla questione professionale, la digitalizzazione della psicoterapia. Sicuramente nel periodo di emergenza è stato molto utile avere strumenti per lavorare da remoto (anche il semplice telefono, come è stato per me) ma a mio avviso non è possibile trasporre in una modalità telematica la psicoterapia, e la psicoanalisi in particolare. Il nostro è un lavoro in cui il contatto fisico è escluso, ma che in ogni caso ha bisogno di “presenza”, intesa come prossimità fisica e spaziale dei corpi, affinché la parola, che è lo strumento con cui lavoriamo, acquisti la consistenza necessaria. Anzi, si può dire che lo spazio del nostro lavoro sia proprio in questa “soglia” tra l’assenza di contatto e la prossimità, che analogamente allo spazio transizionale, come lo chiamava Winnicott, consente l’emergenza di nuovo pensiero. A un livello più pragmatico c’è poi una questione di riservatezza, che non sempre si può mantenere con la modalità remota. Non per tutti i pazienti è facile trovare uno spazio, nella propria abitazione, dove parlare in piena libertà, e anche quando c’è il pensiero della presenza dei familiari può condizionare il colloquio. In conclusione, ben venga il digitale nei momenti di emergenza, ma non come prassi.