Quei “dolorini” che colpiscono le ossa

Quei “dolorini” che colpiscono le ossa

7 Dicembre 2018 0 Di Laura Esposito

Le fratture da fragilità sono una vera e propria emergenza nel nostro Paese, ma siamo ancora ben lontani dalla sua risoluzione: risorse e strumenti sono ancora troppo limitati.

A lanciare l’allarme è l’Organizzazione mondiale della sanità: le fratture da fragilità sono una delle principali sfide per i Sistemi Sanitari dei Paesi Occidentali, per il loro crescente numero legato all’aumento della popolazione anziana.

Soprattutto mancano delle linee guida nazionali che siano in grado di indirizzare l’operato dei medici con diretta ricaduta sulla salute dei pazienti, sia per quanto riguarda il percorso di cura e la continuità assistenziale sia per quanto riguarda una prevenzione efficace.

Ancora oggi esiste purtroppo un gap di continuità assistenziale dopo un evento di frattura e manca una reale azione di prevenzione secondaria da parte degli specialisti e del medico di medicina generale. Questo accade principalmente a causa della mancanza di linee guida specificamente dedicate alle fratture da fragilità e vincolanti dal punto di vista medico-legale, che rendano quindi obbligatorio per il medico seguire un percorso di gestione, cura e assistenza standardizzato e uniforme a livello nazionale” commenta Maria Luisa Brandi, Presidente della Fondazione Italiana Ricerca sulle Malattie dell’Osso e Direttore SOD Malattie del Metabolismo Minerale e Osseo, AOU Careggi di Firenze. “La priorità per il futuro deve essere quindi la creazione di questo nuovo strumento di indirizzo per il paziente fratturato da fragilità che preveda anche meccanismi di controllo e verifica da parte di un Osservatorio”.

Secondo i dati della International Osteoporosis Foundation (IOF) le fratture da fragilità hanno interessato in Italia circa 600.000 persone[i] solo nel 2017, ma si stima un’incidenza molto maggiore nella realtà. Questi dati prendono infatti in considerazione solo i casi di fratture ospedalizzate, ma le dimensioni di questa emergenza sono in realtà molto più ampie se si considera anche tutto il ‘sommerso’ non quantificato, ovvero tutte quelle fratture da fragilità che non sono state registrate perché senza ricovero. Sono circa 3.200.000 donne e 800.000 uomini colpiti da osteoporosi, che è la condizione che minaccia le ossa rendendole più fragili, ma di cui spesso non si percepiscono sintomi o segnali finché non si verifica una frattura, nella maggior parte dei casi causata da una caduta o un trauma banale.

“Gran parte delle persone affette da osteoporosi sono già affette anche dalle sue complicanze, ovvero da fratture da fragilità” spiega Maurizio Rossini, Professore Ordinario di Reumatologia, Università di Verona. “Queste sono spesso molto dolorose, ma possono anche manifestarsi con scarso dolore o può succedere che il dolore sia erroneamente attribuito ad altre malattie reumatiche e, in questi casi, la frattura viene diagnosticata molto in ritardo e solo casualmente. La presa in carico e il trattamento dei pazienti di conseguenza non sono tempestivi, con ripercussioni anche importanti in termini di disabilità e sulla qualità della vita”.

 E il ritardo nella diagnosi non è purtroppo l’unico punto debole del percorso diagnostico terapeutico assistenziale delle fratture da fragilità. Oggi il paziente che subisce una frattura nella maggior parte dei casi viene dimesso dopo l’intervento chirurgico senza aver ricevuto una diagnosi di osteoporosi e una terapia appropriata. Manca quindi un corretto approccio alla prevenzione secondaria, finalizzata a ridurre in particolare il ‘rischio imminente di frattura’ ovvero l’aumento delle possibilità di ulteriori fratture nei due anni successivi a quella iniziale.

“L’intervento diagnostico e terapeutico eseguito dopo una frattura da fragilità è finalizzato a prevenire che il paziente subisca una nuova, ulteriore frattura”, precisa il Professor Rossini. “Questa tipologia di intervento è assolutamente necessaria in quanto un paziente che ha già subito una frattura è maggiormente predisposto a subirne un’altra: in particolare nei primi due anni successivi alla frattura questo rischio aumenta infatti di ben 5 volte ed è questo concetto che intendiamo quando parliamo di “rischio imminente di frattura”.

Allo stato attuale, tutte le maggiori Società Scientifiche competenti, tra cui Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia (SIOT) e la Società Italiana dell’Osteoporosi, del Metabolismo Minerale e delle Malattie dello Scheletro (SIOMMMS), così come il Ministero della Salute e l’Aifa hanno prodotto linee di indirizzo sulla gestione dell’osteoporosi e delle fratture da fragilità, ma non si tratta di vere e proprie Linee guida nazionali che dovrebbero invece essere emanate dall’Istituto Superiore di Sanità e strutturare un percorso di riferimento per gli specialisti ed i medici di medicina generale coinvolti nel trattamento della patologia. Ancora oggi, infatti, molte volte indagini e terapie non vengono consigliati: ad esempio solo il 20-25% delle persone con fratture di femore riceve una prescrizione di indagine densitometrica o un trattamento farmacologico per l’osteoporosi a seguito della dimissione dall’ospedale.

Diversamente da quanto già accade in altre aree terapeutiche – come ad esempio quella cardiovascolare in cui la procedura di presa in carico e trattamento del paziente è scandito da percorsi e procedure standardizzate –  nell’ambito delle fratture da fragilità questo percorso non è stato organizzato in un’ottica di sistema a livello nazionale relativamente a prevenzione secondaria, livelli di assistenza, strategie di intervento e trattamenti in pazienti a rischio di osteoporosi o che hanno già avuto una frattura” spiega la Professoressa Brandi. “Dovremmo ispirarci al modello internazionale dei Fractures Liaison Services, strutture di continuità assistenziale e terapeutica multidisciplinari che dovrebbero essere realizzati come Unità dipartimentali in prossimità dei centri di ortopedia o dei Pronto Soccorsi ortopedici”.

 Le sfide sono quindi ancora tante, anche se molto è stato fatto anche in termini di rapidità di intervento in campo ortopedico, dove il modello attualmente applicato rappresenta un vero e proprio successo per l’ortopedia italiana che ha realizzato un’ottimale e tempestiva gestione delle fratture del collo del femore, utilizzabile anche per affrontare la gestione dell’emergenza delle fratture da fragilità.

 Nei casi di frattura del collo del femore, oggi si auspica un trattamento di riduzione della frattura o l’impianto di protesi entro le 48 ore – dall’ingresso in ospedale all’intervento vero e proprio. La tempestività di trattamento è fondamentale per ottenere un incremento delle possibilità di ripresa del paziente e della funzionalità, che si traduce in un ritorno all’autonomia pre-frattura. Al contrario, lunghe attese per l’intervento corrispondono a un aumento del rischio di mortalità e di disabilità del paziente” spiega Francesco Falez, Presidente della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia (SIOT) e Direttore U.O.C Ortopedia Ospedale Santo Spirito Roma.

Lo specialista oggi può optare per il trattamento conservativo o chirurgico a seconda della situazione evidenziata dagli opportuni approfondimenti diagnostici, che devono tener conto anche dei fattori prognostici dell’osteoporosi e di eventuali comorbilità. “Nella maggior parte dei casi, le fratture da fragilità richiedono un trattamento specifico con l’utilizzo di strumenti che devono sopperire a una capacità di resistenza dell’osso ridotta” – spiega il Proffessor Falez. “Abbiamo quindi adottato tecniche di irrobustimento e potenziamento che possano contrastare la fragilità dell’osso, anche in ambito chirurgico. Infine, è necessario non abbandonare mai il paziente che, oltre al trattamento farmacologico, deve essere informato su dieta, esercizio fisico, apporto di vitamina D e calcio per una ripresa fisica ottimale e completa”.