Dipendenze virtuali ma tanto reali

Dipendenze virtuali ma tanto reali

23 Luglio 2019 0 Di Teresina Moschese*

Avanzano compatte e si moltiplicano all’infinito le dipendenze giovanili dalle nuove tecnologie. Che fine fanno le emozioni? Ecco le contromisure per le famiglie e la scuola.

A chi di voi non è mai capitato di essere invitati a un pranzo in famiglia o tra amici con figli teenagers e scoprire di essere finiti in un’ambientazione tipica da “La solitudine dei numeri primi”? Essere fisicamente vicini ma psicologicamente lontani.

Osservando meglio, vedi che ognuno di quei ragazzini (la loro età va dagli 8 ai 16 anni) ha uno smartphone tra le mani ed è connesso, intento a comunicare con qualcuno “altrove. E’ come se la comunicazione non verbale fosse congelata in una morsa di ghiaccio, mentre le dita corrono veloci sulla tastiera dei loro smartphone per inviare qualche messaggio o selfie a qualcuno che si trova davvero altrove.

Queste scene di terrificante incomunicabilità, viste ripetutamente negli anni, hanno favorito la mia riflessione sulle modalità di comunicazione della generazione dei nostri figli, “i Millennial”,chiamata anche “Generazione TVB” (T. Iaquinta, A. Salvo, 2007).

Pur sapendo che è opportuno guardare ai cambiamenti con occhio privo di pregiudizi e, pur conoscendo i vantaggi che noi tutti traiamo dalla familiarità con le nuove tecnologie e con le potenzialità di apertura comunicativa che esse contengono, non posso non privilegiare uno sguardo a ciò che accade nel mondo interno dei nostri ragazzi; alle ricadute che il vivere in “connessione continua” produce sul mondo affettivo; a come gli affetti prenderanno corpo e sostanza, al di là della prospettiva virtuale; a come si esprimeranno i sentimenti e le emozioni che trovano proprio nel codice non verbale il proprio canale privilegiato.

Diversi Autori spiegano le dinamiche comunicative “social” da differenti prospettive.

Alcuni, come Iaquinta e Salvo, autrici di “Generazione TVB”, sostengono che per i “Millennial” l’essere in relazione e il comunicare sono agiti attraverso un costante processo di ricerca della dimensione dell’”altrove”,che, evidentemente, promette una felicità più attraente della realtà che stanno vivendo, accompagnato dall’impulso a condividere sempre tutto ciò che accade, sorretto dal bisogno difensivo, tipico dell’età, di rinchiudersi in un’immagine di sé apparentemente impermeabile che garantisca immunità dall’essere toccati. 

I loro occhi non guardano in quelli dell’altro, ma sono rivolti allo schermo o alla tastiera del tablet o smartphone. Né lo sguardo dell’altro si posa su di loro, poiché anche l’altro è in qualche modo inchiodato allo schermo del proprio smart. Quando c’è da esprimere stati emotivi essi sono delegati all’uso fugace degli emoticon.

Altri invece, come Giuseppe Riva, ordinario di psicologia della comunicazione all’Università Cattolica, ritengono che la frequentazione dei social network è in grado di fornire una ricompensa intrinsecaai propri utenti, tale per cui dopo qualche tempo essa è mantenuta solo per la sensazione di coinvolgimento e assorbimento che si prova stando online. La caratteristica dei social media è la riduzione delle distanze interpersonali:è facile sapere tutto di tutti e riuscire a contattare le persone che ci interessano. Questa possibilità nasconde però anche degli aspetti negativi. Il primo è l’aumento nei social media del pettegolezzo, che può facilitare la diffusione di stereotipi sociali diventando una forma indiretta di cyber-bullismo.  Il secondo è una vera e propria forma di invidia digitale che può nascere dal confronto sociale con i propri “legami deboli”. Infine, la mancanza di distinzioni tra gli amici dei social network non ci permette di separare in maniera netta i diversi contesti che frequentiamo e i ruoli che assumiamo con il rischio di mettere a repentaglio la nostra reputazione sociale.

Se da un lato, dunque, questi strumenti facilitano l’appartenenza al gruppo di pari e consentono di “stare sul pezzo”, dall’altro il rischio è duplice.In primo luogo, non allenano al conoscere, riconoscere ed esprimere adeguatamente le proprie emozioni, come avverrebbe invece nel rapporto vis a vis, conducendo i ragazzi verso una dimensione anestetizzante della sfera emotiva ed affettiva. Infatti, quando gli aspetti emozionali non posso essere espressi liberamente e vengono messi in ombra, si rischia di consegnare l’adolescente ad una prospettiva esistenziale psicopatologica, marcata dal convincimento che tutto possa essere tenuto sotto controllo, attraverso l’esercizio della sola volontà o il gioco della dissimulazione e del mascheramento.

In secondo luogo, l’uso esasperato dei social, sollecita la costruzione di un’“identità fluida”perché continuamente modificabile, precaria, mutevole e incerta, anche a causa del sistema dei tag. Questa fluidità nell’identitàpuò diventare un problema per un adolescente che sta cercando di costruire la propria, procurando un rallentamento del processo di costruzione del Sè e la sostituzione della stabilità e del futuro con un eterno presente scevro di certezze e di legami.

Ciò priva il soggetto di un importante punto di riferimento nel processo di apprendimento e comprensione delle emozioni proprie e altrui con effetti che vanno dal disinteresse emotivo a forme psicopatologiche della comunicazione.

Cosa possono fare i genitori e i professionisti che a vario titolo sono coinvolti nell’educazione dei ragazzi, per prevenire un non equilibrato utilizzo degli strumenti digitali?

In tema di prevenzione, è utile intervenire su più livelli, facendo leva sui concetti di autoefficacia, autonomia, responsabilità e scopo. Il primo livello è senz’altro la dimensione autoefficacia legata alla consapevolezza affettivo- emotiva. Le famiglie insieme alla scuola devono guidare i nostri ragazzi alla costruzione delle mappe emotive, allenandoli a dare un nome alle proprie emozioni, così da riconoscerle in sé e nell’altro (empatia) ed essere in grado di esprimerle in modo funzionale al contesto. Ciò ovviamente implica che noi adulti per primi ci mettiamo in gioco emotivamente con loro.

Parallelamente, senza privarci dell’uso, oggi quasi necessario, di smartphone, tablet e di tutta la tecnologia che consente di essere connessi, sarebbe funzionale intervenire sull’area dell’autonomia e della responsabilità personale dei ragazzi.Questo lo possiamo fare, in collaborazione con la scuola, in due modi, il primoè l’informazione sui rischi cui andrebbero incontro se sviluppassero una dipendenza dall’”essere costantemente connessi”, il secondoè aiutare i ragazzi ad autoregolarsi. Oggi esistono diverse app gratuite di Phone Usage. In Italia molto diffusa è StayFree per android, e Moment per Iphone. Esse che consentono di monitorare il modo in cui utilizziamo il cellulare e come spendiamo il nostro tempo connessi, tenendo sotto controllo anche le app utilizzate, le pause dall’uso, con la possibilità di attivare  degli Allert che ci segnalano quando stiamo superando una certa soglia di tempo. Questo meccanismo allena nel tempo all’autocontrollo.

Inoltre, possiamo aiutarli ad un loro uso equilibrato ed orientato verso uno scopo mirato che mi piace identificare con lo “scopo delle 3P” (piccolo, pratico e preciso).Significa che dovrebbero essere in grado, gradualmente, prima guidati poi in autonomia, di valutare da soli che il proprio accesso ed utilizzo risponda al criterio delle 3P, ovvero che in quel momento preciso in cui vi accedono abbiamo uno scopo “piccolo, pratico e preciso”, realizzato il quale devono fermarsi e passare ad un’attività della vita reale.

Infine, ho trovato intuitive le contromisure suggerite da Adam Alter nel suo libro “Irresistibile. Come dire no alla schiavitù della tecnologia”, delle quali brevemente cito due tra cui: favorire occasioni che incoraggino la partecipazione alla vita “reale” attraverso esperienze vissute in prima persona; togliere le notifiche dalle app e cercare di tenere il cellulare vicino solo quando è necessario e voluto, ad esempio tenendolo in un’altra stanza mentre i ragazzi studiano, o pranzano o dormono.

Ovviamente premessa di tutto è dare il buon esempio!

*Psicologa – Psicoterapeuta